Ora, al di là del fatto che la russofobia di Yatsenyuk lo porti a vedere i soldati di Mosca ovunque (in un anno scarso che è al potere, di colonne di tank russi intente a marciare su Kiev ne avrà denunciate a centinaia), questa affermazione del premier ucraino era prevedibile. Yatsenyuk non può permettersi infatti che la comunità mondiale distolga l’attenzione dalla Russia e la diriga verso pericoli decisamente più reali come l’Isis, la rediviva Al-Qaeda e le rispettive galassie di assassini fondamentalisti. Ne va del suo potere, che ha costruito grazie alla più classica tattica politica: quella del “nemico alle porte”, un sistema che funziona sempre, e finora lo ha fatto anche con lui, non a caso trionfatore delle ultime elezioni politiche grazie più alla sua immagine di paladino della madrepatria insidiata dagli invasori russi, che a un programma politico concreto.
E questo suo ennesimo allarme è arrivato proprio mentre il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg esprimeva il suo auspicio ad una maggiore cooperazione con la Russia nella lotta contro il terrorismo islamico: la prima misura distensiva verso Mosca dopo che a marzo l’Alleanza Atlantica aveva interrotto ogni partnership militare a seguito dell’annessione della Crimea, decisamente un brutto smacco per uno Yatsenyuk che ha guadagnato forza grazie al muro contro muro nella sua Ucraina.
I fanatici che combattono nel nome di Allah fanno paura al Vecchio Continente come alla Casa Bianca e al Cremlino: era logico aspettarsi che dopo mesi di crimini e abominii commessi in Siria e Iraq, la consapevolezza di essere vulnerabili al terrorismo islamico avrebbe portato Ue, Usa e Russia ad un riavvicinamento in nome del comune nemico. E Yatsenyuk, con la sua bella espressione da secchione, è uno che la Storia deve averla studiata bene: tanto da aver compreso che la logica de “il nemico del mio nemico è mio amico”, che permise nel 1941 l’inedita alleanza tra Usa, Urss e Gran Bretagna contro Hitler, è la stessa che traspare dalle parole di Stoltenberg. Che ne sarà di me – avrà pensato – se ciò fosse l’inizio di una più duratura stagione di distensione?
Del resto il giovane premier ucraino sembra aver compreso che, al di la del sostegno unanime che pubblicamente gli viene espresso dai leader europei, il suo indice di gradimento nelle cancellerie Ue è in calo. È il suo radicalismo a non piacere: sebbene le dichiarazioni ufficiali accusino sempre Mosca di non voler dar applicazione agli accordi di pace di Minsk, in alcune capitali europee comincia a farsi largo la consapevolezza che il vero ostacolo alla pace in Ucraina sia proprio Yatsenyuk. E se fino a poche settimane fa questo concetto non doveva in alcun modo fuoriuscire dai vertici a Bruxelles e dagli incontri bilaterali sulla questione ucraina, a rendere pubblico questo pensiero ora ci ha pensato il presidente ceco Miloš Zeman, che, intervistato a inizio gennaio dal quotidiano Pravo, ha definito Yatsenyuk “un premier di guerra”, accusandolo di sabotare ogni sforzo per la pace in Ucraina compiuto dall’Ue e dal presidente ucraino Petro Poroshenko, “un uomo che lavora per la pace”.
Oggi il fronte internazionale che sosteneva la rivolta di Piazza Maidan dello scorso anno sembra spaccarsi: Yatsenyuk forse ha ancora sostegno negli Usa, dove la sua politica simil-maccartista trova ammiratori nella Destra ultraconservatrice repubblicana, ma l’Europa sembra preferire Poroshenko, maggiormente incline al dialogo e fin dall’inizio del suo mandato intenzionato a portare avanti, più che un processo di pace con i russi, un processo di pacificazione con i russofoni del suo Paese.