“La cecità nei confronti degli autobus è una classica malattia di New York; di tutte le routine della vita, qui il bus è quella meno celebrata, la meno incline a darti una stretta al cuore o a essere elevata a simbolo della nostra condizione. Il taxi ha la sua tradizione movimentata, la metropolitana la sua leggenda, e il Town Car [N.d.T. Autonoleggio di lusso] una certa qualità iconica alla Michael Douglas in stile Wall Street; certo è che se in letteratura esiste una scena memorabile che si svolge su un autobus, o se in un film esiste un momento indimenticabile su un bus di New York, io non ci sono mai incappato.
[…]
Una farfalla in metropolitana. Scena del film “C’è posta per te” (1998), con Meg Ryan e Tom Hanks.
Se mi aveste chiesto perché evitassi gli autobus, credo avrei risposto che gli autobus sono fatti per i vecchi, o che prendere l’autobus mi avrebbe portato a un passo dal non vivere per niente a New York, visto che se ci resti sopra abbastanza a lungo, quello ti porta dritto dritto fuori città. Andare in autobus, pensavo, era una di quelle attività – un po’ come andare a Radio City – che era possibile fare a New York, ma che non le appartenevano veramente. Quando veniva a New York a trovarci, mia suocera prendeva l’autobus, e questo bastava, per me, a chiarire per chi fosse fatto quel mezzo: eleganti donne anziane alle quali non dà fastidio farsi quarantacinque minuti di viaggio, ogni mattina, per vedere i nipotini.
E poi non andavo sull’autobus perché quando arrivammo qui, al principio, mi piaceva moltissimola metropolitana – intensa, perversa, lurida – l’autobus pareva una grigia necessità borghese […]. Eppure, [nella metropolitana] c’era qualcosa di sublime. Sebbene sapesse essere incidentalmente spaventosa era anche, e lo era in modo sistematico, rassicurante: non avrebbe dovuto funzionare; aveva smesso di funzionare; eppure funzionava – vandalizzata, brutalizzata, trattata come una tela per dipingere o come un pisciatoio, comunque affidabile, ti portava ovunque volessi andare. Era una presenza amabile sotto i piedi – rintronante, insonne, sbuffante, più una divinità da rabbonire e ammirare che non una cosa dominata da chi la possedeva.
“New York Subway”
Se – come diceva la gente- le stazioni sembravano dantesche, non era solo perché la metropolitana era sotterranea ed era una punizione, ma anche perché mostrava un ordine architettonico che pareva libero da qualsiasi interferenza da parte di mani umane, mentre correva per conto suo nei suoi tetri cerchi. Senza contare che era anche un’esperienza religiosa in senso stretto: terrore e trasporto vi si congiungevano, e la paura ti sospingeva a un piano più alto.
(Il taxi, che – nel caso si avesse di che pagarlo – rappresentava un’alternativa, era anch’esso allarmante: un autista silenzioso o determinato in T-shirt, seduto su un copri sedile di palline, pretendeva di sapere, cinquanta isolati prima di arrivare a destinazione, su quale lato della strada volevi esser lasciato, senza avere niente di sublime.)”
Adam Gopnik, Una casa a New York
________________________________________________________________________________________
INFO
“Una casa a New York”
«Adam Gopnik scrive per il New Yorker dal 1986. Ha vinto tre volte il National Magazine Award for Essays and for Criticism e il George Polk Award for Magazine Reporting. Vive a New York con la moglie e i loro due figli».
Il libro “Una casa a New York” è edito da Guanda ed è possibile acquistarlo in tutte le librerie e online (ISBN 978 88 6088 739 9).
[Le informazioni riguardanti l'autore sono state tratte dal sito www.guanda.it]
[Le foto sono state tratte da Google]