Perché le agenzie di rating bocciano l’Italia. Rischi ed esagerazioni

Creato il 10 dicembre 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Sono tornate a farsi sentire le celebri “agenzie di rating”, e come al solito sembrano avercela con l’Italia. La scorsa settimana, infatti, l’agenzia americana Standard & Poor’s ha bocciato ancora l’affidabilità del debito pubblico del nostro Paese. Proviamo innanzitutto a capire cosa sono le agenzie di rating, dopodiché analizzeremo quando e perché il loro giudizio dovrebbe preoccuparci.

“Rating”, in inglese, vuol dire “dare un voto”. Ogni debitore di grandi dimensioni – privato o statale che sia, quindi si tratti di una società per azioni come la Fiat oppure di uno Stato sovrano come l’Italia – accetta di farsi esaminare e mettere un voto da un arbitro imparziale, in modo da apparire più credibile agli occhi del creditore che gli deve prestare del denaro. In versione estremamente semplificata funziona così: se l’arbitro certifica che il signor Rossi ha un buono stipendio e una casa in campagna particolarmente bella, il signor Bianchi sarà pronto a prestare i soldi al signor Rossi ritenendolo solvibile nel lungo periodo; se l’arbitro scopre invece che il signor Rossi sta per perdere il lavoro, che ha il vizio di giocarsi tutti i soldi alle corse dei cavalli e che la sua casa in campagna è di cartone, allora lo comunicherà al signor Bianchi che difficilmente vorrà prestare i soldi al signor Rossi. Il rating è dunque una valutazione del grado di affidabilità creditizia di un determinato debitore, espressa da una società specializzata – l’agenzia di rating, appunto – attraverso un voto che fa parte di una determinata scala. Le società di rating più note a livello internazionale, e che offrono questo servizio di valutazione dietro congruo pagamento, sono le americane Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.

La notizia con cui si sono aperti giornali e telegiornali della scorsa settimana è la seguente: Standard & Poor’s ha abbassato il voto finora assegnato al debito pubblico dello Stato italiano, passando da “BBB” a “BBB–”. Ci ha declassato, come si dice in gergo. Ma che voto è “BBB–”? Purtroppo equivale a un “appena sufficiente”. Infatti il voto migliore, secondo Standard & Poor’s, è “AAA” che segnala eccellenti capacità del creditore di onorare le obbligazioni assunte. Poi vengono “AA+”, “AA”, “AA–”, “A+”, “A”, “A–”, “BBB+”, “BBB”, e infine appunto “BBB–”. Si può scendere ancora, ben inteso, ma a quel punto i nostri titoli di Stato sarebbero equiparati a “junk bond”, investimenti spazzatura su cui è molto rischioso investire. Qualcuno, in questa sventurata ipotesi, potrà pure continuare a comprare i nostri bond – Bot, Cct o Btp che siano – infischiandosene del voto delle agenzie di rating; ma alcuni grandi investitori, pensiamo per esempio a un fondo pensione che gestisce risparmi di decine di migliaia di persone, si sono impegnati con i loro clienti a non comprare titoli considerati vulnerabili e dunque speculativi. Ecco perché questo ultimo declassamento, arrivato la scorsa settimana, è particolarmente grave. Il debito pubblico italiano, secondo Standard & Poor’s, è a un passo dal perdere la sua credibilità di “investimento sicuro”; un’altra bocciatura e molti acquirenti dei nostri titoli di Stato potrebbero darsela a gambe. A quel punto, chi continuerà a comprare il nostro debito? E a quale prezzo? Curioso che, proprio nelle stesse ore in cui arrivava questa brutta notizia, il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, ribadiva da Francoforte che “il debito pubblico italiano è sostenibile”. Il collega tedesco Wolfgang Shauble, un po’ ironicamente, gli ha detto che non vorrebbe trovarsi nei suoi panni.

Le ragioni per cui Standard & Poor’s, nel dicembre 2014, ha comunicato al mondo di fidarsi un po’ meno dell’Italia sono presto dette. Essenzialmente, l’agenzia di rating prevede per i prossimi tre anni una crescita del Prodotto interno lordo (Pil) sempre più debole. L’anno prossimo addirittura il tasso di crescita previsto è dello 0,2% invece che l’1,1% finora stimato dalla stessa agenzia, ancora meno dello 0,7% previsto dal Governo. Questo farà sì che diventeranno più grandi due rapporti come quello deficit pubblico/Pil e quello debito pubblico/Pil. Il debito pubblico nel 2016 arriverà al 133% del Pil, secondo Standard & Poor’s, senza nemmeno tenere conto delle risorse che l’Italia dà allo European financial stability facility (Efsf); nel 2017 il debito pubblico sarà pari a 2.256 miliardi di euro (oggi è a 2.134 miliardi, dice la Banca d’Italia), cioè 80 miliardi di euro in più rispetto alle precedenti stime di Standard & Poor’s.

Infine c’è un altro aspetto interessante del giudizio dell’agenzia di rating, aspetto cui giornali e telegiornali non hanno dato purtroppo risalto, ma che i lettori di questo sito dovrebbero comprendere bene: Standard & Poor’s ritiene che i Governi italiani abbiano oramai “possibilità relativamente limitate” di alzare ancora le tasse per correggere i conti pubblici, visto che già oggi il gettito fiscale è pari al 47,7% del Pil; e visto che sul lavoro grava una pressione fiscale effettiva del 42,3%, “la seconda più alta in tutti i 28 Stati dell’Unione europea”.

C’è davvero da preoccuparsi? Per ora il voto di Standard & Poor’s non ha causato parapiglia eccessivi sui mercati. Detto in altre parole: siamo stati bocciati, ma gli investitori che hanno comprato i nostri titoli del debito pubblico sembrano credere ancora nell’allievo-Italia; i rendimenti sui titoli del debito non sono aumentati, anzi. Lo spread tra i rendimenti dei Btp e quelli dei Bund tedeschi continua a veleggiare ai minimi dal 2010. Ci sono almeno due spiegazioni di questo curioso andamento. La prima dipende dalle attese per l’operato della Banca centrale europea: gli investitori prevedono che prima o poi, sicuramente entro la metà del prossimo anno, la Banca centrale guidata da Mario Draghi comincerà a comprare titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona nel tentativo di combattere la deflazione; questo ovviamente ridurrà il rischio che un Paese debitore come l’Italia finisca gambe all’aria. La seconda spiegazione tira in ballo invece la credibilità delle agenzie di rating. D’altronde non mancano i casi recenti, dal crack di Parmalat nel 2003 al crack di Lehman Brothers nel 2008, in cui questi “arbitri” hanno dimostrato di poter sbagliare e di molto. In quei casi le agenzie di rating furono troppo comprensive con i loro clienti, illudendo così i creditori sulla solidità dei loro debitori. Così da qualche mese le stesse agenzie di rating sembrano voler recuperare la credibilità persa, emettendo giudizi più severi del dovuto. Senza contare che la situazione fortemente oligopolitistica del mercato delle agenzie di rating – le principali sono tre e tutte concentrate negli Stati Uniti – solleva altri dubbi sull’effettiva terzietà di questi soggetti. Con tutti questi caveat, come abbiamo visto, non mancano le indicazioni utili sul nostro Paese, perfino in un comunicato di Standard & Poor’s.

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