Perché non è solo la partita il cuore pulsante di uno stadio.

Creato il 27 gennaio 2015 da Sdemetz @stedem

È un’operazione ardua la mia oggi: raccontare una domenica pomeriggio allo stadio. Ardua perché parlare di calcio in Italia comporta una grande responsabilità. Tanto si scrive e tanto si dice. Ma forse, mi dico, è proprio grazie al mio essere “straniera” in un’esperienza che per molti è abituale che mi potrebbe consentire di offrire uno sguardo forse ingenuo, ma di stimolo – spero – a una riflessione più ampia. Niente analisi, ma sensazioni: è l’unica cosa che mi sento di raccontare. Cosa hanno visto i miei occhi e cosa ha registrato la mia parte emotiva? Ecco la domanda che ho lasciato sedimentare per alcuni giorni. E che ha trovato una risposta.

Il buongiorno come segno di efficienza.

Partiamo dall’inizio. Ero ospite in tribuna con pranzo nel Club Boniperti. Dal momento in cui con la macchina siamo entrati al parcheggio al momento in cui mi sono accomodata a pochi metri dal campo è stato tutto perfetto. Nessun ingorgo per parcheggiare, un primo controllo all’entrata con una tesserina bianca, un secondo controllo con una tesserina d’oro all’entrata del “foyer”, un terzo controllo per ottenere un braccialetto arancione legato al polso e, infine, l’incamminamento verso la sala da pranzo. A ogni porta, corridoio, cambio di ambiente c’erano gli steward che in modo non invasivo controllavano il braccialetto e cordialmente salutavano. “Troppi buongiorno”, mi dice il ragazzo che faceva parte del mio gruppetto. Ma almeno – ho pensato –  sono steward gentili e sorridenti. Ti mettono a tuo agio. Il pranzo è stato rapido, un buffet senza coda. Antipasto, due primi, un secondo, il dolce, vino e caffè. Poi, l’ora si avvicina, e via verso il campo …

Il rituale di tempi antichi

E qui le sensazioni cambiano. Mentre nei miei occhi entra una visione a grandangolo sulle tribune che mi circondano a 360 gradi, penso all’eredità che ci hanno lasciato i romani. Questi anfiteatri sono contenitori perfetti per un popolo variegato e bisognoso di intrattenimento: musica a tutto volume, curva dei tifosi gremita, bandiere giganti che sventolano e la gente che prende posto. Arriva l’annuncio delle squadre: tono informativo per gli avversari – cioè nomi pronunciati senza particolare emozione – e urlato mentre scorrono sullo schermo i nomi dei giocatori juventini. Un primo stridore, e non perché non si debba essere partigiani, ma io non credo che la forza di uno speaker stia nel volume della sua voce. Non è urlando che veicoli emozioni. Poi, tutti in piedi, l’inno che rimbomba le sciarpe che sventolano. Lo stadio pronto per iniziare.

È stato questo il momento in cui ho guardato verso il campo e quasi con un gesto metaforico ho cancellato dalla mia mente tutto ciò che il calcio oggi porta con sé: i discorsi al bar, le polemiche, i soldi, i tanti soldi, i calciatori – personaggi inseguiti da paparazzi e veline -, e poi le speculazioni sulla vendita dei diritti, l’odio per questo sport di molti e la passione partigiana di molti altri, gli sponsor, gli interessi economici, talvolta politici e i mille blablabla. Ho guardato al centro sul campo verde e mi è venuta voglia di annullare tutti questi “accessori” per tornare alla radice, a un paesaggio in cui si toglie l’intervento dell’uomo per lasciare riemergere i contorni di una morfologia originaria.

E ciò che è rimasto là in mezzo al prato che profumava di erba e di umido è stata davvero solo una cosa: il gioco. Il rituale di una battaglia pacifica incastrata dentro le regole. Il rituale. Ecco, a questo pensavo. Noi qui seduti a guardare i nostri eroi che si battono. Noi spettatori, loro attori. Entrambi necessari a questo rito.

E un brivido: la commozione dell’attesa.

L’istante prima dell’esplosione

L’emozione vera e pura io l’ho provata esattamente in quell’istante. Poco prima che il fischietto dell’arbitro suonasse. Poi, è iniziata la partita e il mondo è esploso. E mi è venuta in mente una citazione di Kandinsky che mi pare una bella similitudine. Ecco, lui una volta aveva detto che nella sua pittura cercava di rappresentare un’emozione nell’istante prima che esplodesse. Un’emozione controllata resa eterna nel suo fermarsi poco prima dello scoppio. Quei minuti prima del fischio per me sono stati questo: una trepidazione verso qualcosa che accadrà. La forza immensa dell’attesa. Il trattenere le emozioni. La speranza, il sogno.

Poi la partita inizia, l’esplosione avviene, la tela si riempie senza lasciare più spazi vuoti. Il mistero svanisce. Prima o poi si saprà anche chi ha vinto e chi ha perso.

Le tracce svanite

Alla fine, vinciamo noi. Eppure tutto torna alla normalità.

E allora mi rivedo a ritroso, alzarmi dalla tribuna, incamminarmi verso l’uscita, ricambiare con un sorriso l’arrivederci cordiale degli steward. Uscire, salire in macchina, tornare a casa.

Quasi come se nulla fosse accaduto. Come se quell’energia densa di aspettativa non ci fosse mai stata. Come se quell’emozione fosse un ricordo remoto, forse solo un sogno, forse qualcosa che mi sono inventata.

Certo, ho esultato anch’io per i goal, eppure tornando a casa ho sentito che qualcosa mi mancava.

Ma cosa? È stato tutto perfetto, efficiente, due goal, ordine, cordialità, eppure …

Potrei dire che è mi mancata l’esperienza globale. Mi è mancato qualcosa che riuscisse ad agganciare dentro di me quella sensazione iniziale e tenerla legata dentro di me anche nel dopo. Una sorta di memoria emozionale. È stato solo un attimo e quell’attimo è svanito. La mia giornata allo stadio è stata bella, bellissima, ma non mi ha sedotto con quel brivido iniziale. È come se avessi vissuto qualcosa di normale, non qualcosa di straordinario.

La legacy delle emozioni

Lo so che per un tifoso di calcio la partita è tutto, ma siamo certi che sia sufficiente? E per quelli come me? In cosa consiste questa esperienza? Se, infatti, oltre ai servizi impeccabili, in tutto questo mio percorso, dal parcheggio al ristorante, alla tribuna e di ritorno al parcheggio ogni momento fosse stato occasione di esperienza? Se entrando nel Club Boniperti mi fossi sentita emozionata perché messa io stessa in scena in quanto spettatrice, ospite e testimone di una partita che non può che essere unica e irripetibile? Se giá li mi fosse stata narrata l’attesa? E se dentro lo stadio oltre al gioco ci fosse stata un’attenzione a me spettatrice con informazioni e servizi, che non fossero solo quelli impeccabili dell’accoglienza? Non posso non citare Steve Jobs, che quando decise di aprire gli Apple Store si pose l’obiettivo di far sì che la gente all’uscita dal negozio fosse un po’ più felice rispetto a quando era entrata. Allo stadio i tifosi lo sono di sicuro, ma uno stadio è davvero solo un luogo per tifosi? E se la Juve avesse perso? Non è possibile pensare invece a un’esperienza che vada oltre la partita? Che coinvolga lo spettatore prima e dopo? Dove pure il pranzo diventa esperienza? Eravamo tutti lì, ma tutti slegati gli uni dagli altri. Eravamo spettatori muti, passivi, osservatori. Urlanti e attivi solo nei 90 minuti della partita. Certo le nostre voci si sentivano, ma per me è stato come se fossimo semplici comparse, anonimi individui. È mancata una narrazione che ponesse anche noi, spettatori, al centro dello spettacolo. Che ci trasformasse in attori insieme ai giocatori. Ci si è occupati di noi in modo impeccabile, ma non si è pensato a noi come persone che hanno dentro di sé un sogno, e che nel momento in cui entrano nello stadio vogliono vivere una giornata unica e indimenticabile.

Per parafrasare una pubblicità: è mancata la narrazione per cui una partita è per sempre.

Che poi si può estendere  anche a un evento é per sempre. O per lo meno, da un punto di vista dell’esperienza, dovrebbe esserlo. Per sempre.


Non é la prima volta in realtá che scrivo di calcio:

  • Come andare allo stadio ed essere felice
  • Gli stadi tedeschi: entertainment e business
  • Il vero potere dello spettatore

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