25 AGOSTO – Chi non conosce la grande Marilyn Monroe, la star più brillante di Hollywood, la diva degli americani e la sex symbol più amata dal mondo intero? Marilyn era tutto questo, un’attrice, una modella, una cantante e una produttrice cinematografica, che in soli 15 anni di carriera girò 32 film memorabili. Ma chi conosce davvero Norma Jeane Baker?
Norma Jeane era il suo vero nome, il nome della donna, non dell’attrice. Una donna che, come è risaputo, viveva attorniata dalle sue debolezze e fragilità. Ma che cosa aveva portato Norma Jeane a vivere in un costante stato di solitudine e depressione? Un’infanzia terribile caratterizzò la sua vita, segnata da violenze e trascuratezze, tra orfanotrofi, affidi e case-famiglia; inoltre Marilyn soffriva di un disturbo bipolare, probabilmente ereditato dalla madre. Questa infanzia infelice ha sviluppato in lei sentimenti come la paura dell’abbandono e tante altre insicurezze, oltre ad essere stata la premessa di un’esistenza difficile e disordinata. Ma è proprio da questa condizione che scaturisce in Marilyn un desiderio di riscatto e di emancipazione.
Il mondo del cinema fece parte fin dall’inizio della vita di Marilyn e gran parte della sua infanzia la trascorse nel cuore di Hollywood, poiché la madre, Gladis Pearl Monroe, lavorava alle Consolidated Film Industries, e quindi Marilyn trovava spesso rifugio nelle varie sale cinematografiche, dove passava gran parte del suo tempo.
Nel 1946 firmò il suo primo contratto cinematografico e, negli anni successivi, grazie a film come Gli uomini preferiscono le bionde e A qualcuno piace caldo, ottenne la definitiva consacrazione internazionale, classificandosi al sesto posto nella lista delle più grandi star femminili di tutti i tempi dall’American Film Institute. E sarà proprio dalla pressione di questo successo, così velocemente ottenuto, che comincerà la sua profonda depressione. Il suo ruolo principale era spesso quello della bionda bella ma non troppo intelligente, della donna come merce da esporre; e lei, sempre più fragile, non riuscirà mai a gestire questa condizione in cui era precipitata, ma continuerà ad assillarla e a tormentarla per tutta la vita. Da questo ruolo, così artificiale e costruito, lei volle disperatamente liberarsene. Da qui l’abuso e le dipendenze da alcool e farmaci.
Nel 1962 la vita dell’attrice era un disordine totale, dovuto ai molteplici aborti spontanei e al fallimento del suo terzo matrimonio con lo scrittore statunitense Arthur Miller. Questa condizione di solitudine e depressione la portò, infine, al “probabile suicidio per overdose di barbiturici”, o almeno questo è quello che emerge dalla frettolosa autopsia condotta sul cadavere della diva, trovata morta nella notte tra il 4 e il 5 Agosto del 1962.
E’ morta la donna, non l’attrice. E’ morta una donna desiderosa di ricevere amore e attenzioni, ma che seppe solo darle alle persone sbagliate, come testimoniano i suoi diversi matrimoni. Marilyn era condannata ad essere quello che appariva, non quello che era: è appartenuta al pubblico, ai suoi simboli ma forse mai a se stessa.
Il film del 2011 Marilyn (My Week with Marilyn), di Simon Curtis, è una testimonianza particolarmente importante della fragilità emotiva e psicologica di Marilyn Monroe: per gli uomini è una grande delusione quando scoprono che la donna che hanno davanti non è la seduttrice che hanno conosciuto sul megaschermo, ma una persona comune, una donna come tante altre, con le sue perplessità e incertezze. E ce ne rendiamo conto soprattutto quando lei sussurra al giovane Colin Clarke “devo essere lei?”.
Oggi, a 50 anni dalla morte della star del cinema più famosa del mondo, il tema della contrapposizione tra immagine massmediatica televisiva e persona reale è tuttora attualissimo.
Quindi commemoriamo Marilyn, ma quella vera. Commemoriamo la donna, non l’attrice, con tutte le sue debolezze e fragilità, in cui spesso ci possiamo ritrovare. Commemoriamo Norma Jeane Baker.
Monica Nocent