A me piace scrivere.
Mi piace il suono dei polpastrelli sulla tastiere, mi piace vedere la barretta che scorre sullo schermo e compone parole, tanto quanto mi piace vedere la penna che ruota in continuità plastica, come in una danza, sul foglio bianco.
Se avessi preferito altre cose alla scrittura, di sicuro non sarei stato qui in questo blog, direte voi - e che ce lo dici a fare? Dato che, da queste pagine, se non dar sfogo a qualcosa di mio, non si pretende altro. Per certi versi, e mi dimentico troppo spesso di farlo, dovrei ringraziarvi ogni volta che leggete un mio post: prendervi e stringervi la mano, perché siete la parte in più di questa mia cosa, chiamiamola hobby, azione di scarico di molte tensioni quotidiane - come quelle che abbiamo tutti - raccolta ordinata di pensieri in una stanza più ampia di quell'angolo di casa che per esigenze pratiche mi è concesso.
Voi siete quelli che rendete questo posto, un bel posto. Con ogni probabilità - e sono molto convinto che sarebbe stato così perché fino al 2011 è stato così - avrei scritto lo stesso, anche senza altri interlocutori. Non sarebbe stato lo stesso sotto il punto di vista della socialità, del condividere il mio pensiero (nel piacere di sollecitare per quanto possibile il vostro), nell'ordine in casa (ci sarebbero state pile e pile di fogli), ma sarebbe stato lo stesso piacevole dal punto di vista dell'attività fisica: la scrittura.
Sia chiaro: non sono un muto antisociale, io adoro parlare. Ho speso bellissime ore della mia vita, in chiacchierate senza significato, senza soluzione, senza continuità, con interlocutori coscienti quanto me che quello che stavamo facendo era puro hobby. Pieno piacere, divertimento: da feticista della parlata, esteta del favellare, donchishottiano nella verbalizzazione.
Ma per parlare, occorre essere almeno in due - d'accordo, a me non sempre; spesso mi ritrovo in giro per casa a discutere di quello o di quell'altro, analizzando ragioni e torti, espedienti dialettici e giri di parole, e poi mi rendo conto di essere da solo, completamente da solo, tanto che le prime volte, Dan si preoccupava. Però in genere la conversazione, presuppone la presenza di più persone: scrivere no.
Per scrivere basta una mano, e nemmeno sempre, un foglio e una penna, di qualsiasi materiale siano - fisici o digitali, per dire, non fa differenza.
Scrivere è migliore: quando si scrive non si corre il rischio di cedere all'emotività (almeno per quel riguarda il lato negativo dell'emotività), di solito c'è il tempo di rileggersi - quando si parla non c'è il tempo di risentirsi invece. E per uno molto emotivo come me, questo è importante. Quando si scrive, per di più, c'è tempo di riflettere tra una parola e un altra, e di sceglierle bene quelle giuste: puoi cancellare e ricancellare ancora, tornare indietro, sentirne il suono, pesarne il senso, annusare la sensazione che quelle righe possono emanare in chi legge; bisogna essere bravi, però, oggettivi e asettici e non sempre ci si riesce. Vero, ma vuoi mettere con un fiato che esce tutt'uno dalla bocca e scivola verso le orecchie di chi hai davanti, senza prima essere provato e sperimentato, ponderato, misurato, valutato in ogni sua debolezza?
Quando si scrive, si è più sinceri, per me: e certo che la sincerità non dipende dall'attività, dallo strumento comunicativo, ma il poter dedicare più tempo a quel che si vuol dire, per me contribuisce anche a calare qualche maschera.
Questo ci permette di essere più chiari e meno volatili - quella cosa dello "scripta manent" e poi il resto, per capirci. Scrivere imprime le cose. Le mette "nero su bianco", come si dice, dando un senso universale a quel che si è scritto - che non significa che una volta fatto debba restare lì, asettico e senza vita. Quello che si scrive, al contrario, continua a respirare, sempre. Che venga letto, o meno.
È per questo che preferisco scrivere al parlare. Soprattutto nei casi in cui ho qualcosa da chiedere, da chiarire, da approfondire, da sviscerare, da raccontare, da ricordare, da commentare, praticamente sempre.
Preferisco scrivere anche quando devo discutere con qualcuno: non è una questione di non essere in grado di tenere un conversazione, una discussione per certi toni, e non è nemmeno per falsità, o per immodestia e scarsa considerazione dell'altro, e non è per la pigrizia del "non mi guardi sugli occhi". Scrivendo riesco a spiegarmi, a misurarmi e a essere completo, esauriente, omogeneo, organico, coerente, riesco a creare la rotondità di quello che ho da dire. Il passaggio vis-a-vis è una cosa non indispensabile dal mio punto di vista. Certo questo presuppone che il mio interlocutore - quello con cui discuto - legga attentamente quello che io ho scritto, o gli ho scritto, salvo creare incomprensioni sulla superficialità. Ma nel parlare, si rischia di più: magari disattenti per l'intorno, la testa sfugge e si porta dietro qualche parole, magari importante, della discussione, e poi hai voglia a ricordare se quell'altro ha capito "fischi" e tu hai detto "fiaschi". Almeno, una volta scritto, tutto resta lì: accessibile e recuperabile, anche dopo mille disattenzioni.
Dunque non prendetevela se quando ho da dirvi qualcosa, ve la dico d'inchiostro e carta. La gente nelle discussioni urla, sputacchia, ha aliti imbarazzanti, gesticola che poi magari hai un bicchiere in mano e te lo fa cadere, sorride, ammicca, s'aggronda e s'annuvola. Usa il proprio corpo per accompagnare la propria voce: ed è questo che non voglio, non voglio che le mie parole prendano forme diverse da quelle che già hanno, altrimenti ne avrei scelte delle altre. Ché scrivendo ne avrei il tempo, senza artifici teatrali.
Magazine Talenti
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