Perché pubblicare un libro non serve a niente e perché siamo tutti MOSTRI
Creato il 11 luglio 2014 da Pupidizuccaro
Spieghiamoci. Pubblicare un libro di per sè non serve a niente e non significa niente. In Italia si pubblicano circa 70mila libri l’anno. Circa 20 libri al giorno. Abbiamo credo il maggior numero di case editrici in Europa, gran parte delle quali non sono altro che trafficanti di illusioni, criminali profittatori pronti a spennare il pollo di turno, lo scrittore ingenuo e sognatore, fotterlo definitivamente, ingannarlo e metterlo alla berlina senza che lui se ne accorga e probabilmente non se ne accorgerà mai. Ricordiamoci SEMPRE che meno del dieci per cento della popolazione legge più di un libro al mese.E che praticamente 99% delle pubblicazioni cartacee sono nient’altro che puri sollazzi ombelicali di gente che scrive per sentirsi qualcuno, farsi figo o pompare il proprio ego malato. Scrittori ingenui e sognatori si, ma anche tanta tanta malattia e tanta vanagloria. Tante illusioni, cantonate e giudizi sbagliati che finiscono immancabilmente per diventare cattiveria professionale e umana. Perchè il 99% di quello che si scrive e si pubblica non è altro che carta da macero, frattaglie e scarti cerebrali pronti pronti per finire presto nell’immondizia e riempirsi di vermi. Paradossalmente – ma mica tanto- vale di più pubblicare su un giornale locale, una testata giornalistica anche di scarsissima qualità, un quotidiano che già il giorno dopo è già vecchio esuperato, buono soltanto per incartarci il pesce, che pubblicare un libro. Tutta sta paranoia di pubblicare e promuoversi a tutti i costi, e farsi leggere, ha molto poco senso. O meglio, serve quasi esclusivamente per rifocillare il mercato dei criminali profittatori pronti a spennare il pollo di turno. A far girare l’economia dei trafficanti di illusioni.
Ecco, se si vuole ragionare su che senso ha scrivere e su come si può scrivere nel modo più autentico e sensato possibile, bisogna partire per forza da questi presupposti. Chi scrive non può dimenticarsi per un attimo del mondo che lo circonda. È obbligato ad addentrarsi nel bestiario intellettuale che lo attira e lo minaccia, questa oscena mostra delle atrocità che ci troviamo di fronte, attorno, e sopra e sotto, e dovunque. Un qualcosa di abnorme e inumano che produce immancabilmente MOSTRI.
INTELLETTUALI DEL CAZZO - Ecco, cominciamo a dire che forse la gente più stupida è quella che ha la pretesa di essere intelligente. E le cose più ignobili in assoluto sono quelle che nascono con la pretesa di essere intelligenti, profonde, originali, e poi falliscono miseramente nell’intento. Il fatto è che, nel lavoro intellettuale, ci si dimentica sempre di più che le cose migliori derivano dall’umiltà. Le “pretese” dovrebbero essere in pochi a potersele permettere. Ma adesso ci sono mille ostacoli. Perchè adessoo tutto – tipo questo mercato culturale che sarebbe meglio mandare a fanculo – tutto sembra dirti che se non hai pretese non vali niente.GENERAZIONE VENDUTA - Ma l’arte – ma meglio chiamarla “lavoro intellettuale che produce: cinema, letteratura, teatro eccetera eccetera” – ha senso di esistere solo se adotta un punto di vista e un occhio verso il mondo che sia veramente differente rispetto al senso comune, con i germi dell’universalità, astratto e insieme vicino alla realtà. C’è bisogno di una sorta di fervido strabismo, una dislessia prospera, uno sguardo e una lingua che nessuno ha mai usato. E per questo ci vuole saper sentire la realtà intimamente, da vicino, e poi sapersene estraniare, distaccarsene, con un successivo slancio creativo. E per questo ci vuole umiltà, che è la precondizione della curiosità e dell’originalità, dello spirito osservatore e dell’estro creativo.Ma l’umiltà – per fattori ambientali – è in via di estinzione. Ora infatti, ora che tutto è mercato, e le maglie sono sempre più strette, e a nessuno – per carità –a nessuno si nega il sogno di sentirsi artista, adesso che devi lottare, rimboccarti le maniche e blablabla, adesso l’umiltà non offre spazio e posizionamenti. Non ci vai da nessuna parte.Ora che tutto è tutto-e-subito, che siamo tutti col nodo alla gola di fare-tutto-e-subito, ora che non c’è-mai-tempo-per-fare-niente, l’umiltà non offre risposte immediate, consumabili nel brevissimo periodo, alle richieste più pressanti della nostra persona e della nostra civiltà. Non è momento per l’umiltà, questo.Ora bisogna per forza autopromuoversi, autocelebrarsi, farsi vedere, sapersi vendere, assumere pose. Lo ha detto tempo fa lo scrittore Mauro Corona, sinceramente, di una sincerità che sembra pure marketing: «Vorrei – dice a Linkiesta – che i lettori apprezzassero i miei libri, ma per venderli ho dovuto creare un personaggio, perché non siamo in una nazione che si informa e che va a vedere i valori e se un libro è buono o no. Ho dovuto creare un personaggio, e fare il pagliaccio, per poter vendere libri e far laureare i miei quattro figli e comprar loro una casa. Ma il personaggio sparirà presto, perché mi sto annoiando. Sto annoiando me stesso». (Leggi pure qui)QUALCUNO CI SALVI DAL MERCATO CULTURALE - Questo, nel mondo cosiddetto dell’arte, produce MOSTRI. Se tu raggiungi un certo successo – di qualunque tipo, in qualunque situazione – principalmente per le tue pose, mentre la tua opera passa in secondo piano, è naturale che tendi di più a sviluppare le tue pose che a sviluppare la tua opera. Se godi del successo e dell’acclamazione sociale – di qualunque tipo, in qualunque situazione – alloranon hai incentivi a lavorare duro, a stempiarti ancora sulle sudate carte, sulle idee e sulle nuove prospettive. Poco male se, poi, sono in pochi quelli che hanno capito veramente la tua opera. L’importante è che vadano matti per il tuo personaggio. In questo modo, mantenendosi fino al collo dentro il mercato culturale, lo sviluppo della tua opera non serve più a niente.Niente ti spinge a fare ricerca, dentro il mercato culturale. E se continui a viverci dentro, abbarbicato, facile che la tua ricerca venga ostacolata, rallentata, impedita.Così talenti vengono bruciati dal mercato, e si assiste ad uno spreco immane di energie e lampi di genio gettati alle ortiche. Perché il mercato culturale, siccome è mercato, tende ovviamente a usarti come oggetto di mercato. Da consumare e poi buttare, come è giusto che sia. Non c’è niente nato per restare, sul mercato. Manca la dimensione del tempo. Non c’è niente che valga veramente qualcosa, al di là del consumo immediato.Così autori che hanno tutti gli strumenti, il talento e le qualità per sfornare capolavori che verranno ricordati anche tra cento anni, presi appunto dalla frenesia di sfornare capolavori che verranno ricordati anche tra cento anni, perché così impone il mercato, vengono bruciati dalla fretta, dall’egocentrismo, dalla psicosi dell’io-sono-artista-e-ho-ragione-io, da quel minimo di successo e acclamazione sociale, o semplicemente si adattano benissimo alle esigenze del mercato, e immancabilmente producono mostri. Immancabilmente, diventano mostri.
NOTE
1) “Chiamiamoli periodici, questi oggetti cartacei che sgomitano per conquistarsi decimetri quadrati in libreria, che si sbracciano (“Prendimi! Dammi una possibilità!”) per essere raccolti dagli occhi di qualcuno, e che poi finiscono inesorabilmente trascinati via di peso come pazzi dopo poche settimane di vendite sbiadite. Per essere buttati e chiusi dentro le segrete dei magazzini editoriali, e da lì, infine, nella fossa comune del macero, previa lettera all’ autore per notificargli che quella è l’ ultima stazione della via crucis della sua opera immortale. Timbro, spedizione, e il libro finisce smaterializzato in uno sbuffo di polvere di carta. Quello che si appresta (o aspira) ad attraversare l’ ipotetico scrittore è un paesaggio ridicolo, grottesco a tratti. Ai turlupinamenti dell’ ufficio stampa ai danni degli autori si aggiungono le distrazioni intrinseche dei giornalisti, il cinismo delle televisioni, i successi illusori dei libri, la falsa competitività dei premi, la zavorra degli omaggi profferti a fine presentazione. Alla fine di questo libro però verrebbe voglia di far virare quella delusione e quell’ ironico disincanto – che pure non concedono sconti, ma comunque attenuano gli spigoli – verso la denuncia. Viene voglia di reclamare un pensiero politico, al «dorato mondo delle Lettere»,e a chi lo attraversa come un paesaggio bombardato. Che Paese è quello in cui gli editori rovesciano sui banchi delle librerie esordienti a buon mercato pronti ad abbandonarli al primo insuccesso? Che Paese è quello in cui i libri che arrivano in libreria sono pieni di refusi, traduzioni malpagate non riviste, sciatterie sparse per le pagine? Che Paese è quello in cui i giornali non parlano più di un libro a due mesi dall’ uscita perché non è più una novità? Che Paese è quello in cui i cosiddetti intellettuali rilasciano opinioni affrettate al telefonino, mentre guidano, o mentre guardano il primogenito che si appresta al calcio d’ angolo al novantesimo? Che Paese è quello in cui si accetta che degli insegnanti di lettere dicano che non hanno tempo di leggere? Che Paese è quello in cui nessuno si chiede più di che editore sia un libro perché gli sembrano fondamentalmente tutti uguali, dalle copertine ai titoli fino all’ autore che li reclamizza sulla fascetta? Settembre 2013, Andrea Bajani su Repubblica
1-bis) Da leggere pure: ”Il mistero (poco misterioso) delle (tante) case editrici italiane” di Silvio Donà. “La silenziosa casta degli scrittori, dove gli amici sponsorizzano gli amici” (Corriere). Come finisce un libro (Il Foglio). E poi: ”Perché leggere non solo è inutile ma fa anche male” (Il Giornale).Promozione, l’inerzia degli scrittori emergenti (Parole A Colori).
già pubblicato su StupeFatti
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