Dunque: vi si nota di più se guardate il Festival di Sanremo per criticarlo dal primo all’ultimo fotogramma o se non lo guardate per vantarvi di non averlo guardato? (stranamente, gli appartenenti a quest’ultima categoria dimostrano di conoscere a memoria ogni nota di questa o di quella canzone e sanno financo di che colore fosse lo smalto sulle dita dei piedi della starlette di turno).
Puntuali, prevedibili ma tutto sommato rassicuranti, un po’ come i Babbi Natale appiccicati ai balconi a dicembre oppure le bufale su Cécile Kyenge.
Secondo i sociologi Bathkin, Bordieu e King, era convinzione delle “élites” che che i generi culturali, di svago e di intrattenimento a loro rivolti e da loro concepiti fossero “migliori” rispetto a quelli studiati per le masse, e questo perché più elaborati e costosi. Manifestazione di massa e per la massa, il Festival di Sanremo stride quindi con la visione esclusiva, esclusivista ed autoemarginante di chi ritiene di far parte di una segmento ristretto di privilegiati sul piano intellettivo e culturale. Si tratta ad ogni modo di una visione miope e claustrofobica, perché non c’è dubbio che la kermesse ligure (unica nel suo genere) rappresenti ed abbia rappresentato un nodo ed uno snodo fondamentale nel percorso recente del costume e della cultura di questo Paese; dal palco dell’ Ariston sono passati infatti artisti che hanno segnato la storia della canzone (italiana e non italiana) ed il palco dell’ Ariston è un album fotografico che illustra e racconta l’evoluzione del vivere italiano come e meglio di molti libri di storia o di sociologia.
A differenza dell’ostracismo verso generi quali il “Cinepanettone” oppure il “Poliziottesco all’italiana”, l’egocentrico ed aprioristico snobismo antisanremese riesce a mettere d’accordo soggetti di destra e di sinistra, in un vortice di banale ottusità che li accomuna concettualmente a chi, a suo tempo, alzava le spalle davanti alla commedia oppure al romanzo.