Foto di Jaime González
PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura
George Orwell
Fin da piccolo, forse già dall’età di cinque o sei anni, sapevo che da grande avrei fatto lo scrittore. Più o meno fra i diciassette e i ventiquattro anni cercai di abbandonare l’idea, ma ero consapevole che così facevo torto alla mia vera natura e che presto o tardi mi sarei dedicato a scrivere libri.
Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico: ”Voglio produrre un’opera d’arte”. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare. Però non potrei lavorare a un libro, e neppure a un lungo articolo giornalistico, se questa non fosse anche un’espressione estetica.
Ogni scrittore è vanitoso, egoista e pigro, e alla base delle sue motivazioni c’è un mistero. Scrivere un libro è una lotta lunga, spossante, come un periodo di lunga e penosa malattia. Se non si fosse spinti da qualche incomprensibile ma irresistibile demone non ci s’imbarcherebbe mai in una simile avventura. Quel demone, per quanto se ne sa, è semplicemente lo stesso istinto che spinge un bambino a strillare per richiamare l’attenzione. Però è anche vero che non si può scrivere niente di leggibile se non si lotta costantemente per cancellare la propria personalità. La buona prosa è come il vetro di una finestra. Non saprei dire con certezza quali siano per me le motivazioni più forti, ma so quali meritano di essere seguite. E riconsiderando la mia opera, mi accorgo di aver invariabilmente scritto libri senza vita, facendomi allettare da brani altisonanti, frasi senza senso, aggettivi puramente ornamentali, insomma da una generale falsità, proprio quando mi mancava uno scopo politico.
Estratti da George Orwell, Romanzi e saggi, Meridiani Mondadori