Perche' tentare

Da Antoniobruno5


Fin dai primi tempi in cui frequentavo le lezioni di agraria, il mio interesse era rapito dalla lettura di testi di agricoltura alternativa. Ancora non conoscevo a fondo le pratiche agricole che avrei dovuto studiare, e già osservavo criticamente la distanza esistente tra i principi divulgati durante le lezioni (uso coerente dei fitofarmaci, attenzione nei dosaggi di concimi chimici, importanza della sostanza organica e delle cure colturali alternative) e quanto in pratica accadeva nei campi. La gestione dell'azienda era (ed è tuttora) affidata il più delle volte ad agricoltori, la cui unica cultura era quella legata alla tradizione. La percentuale di laureati in agraria che andava a dirigere un'azienda agricola era circa del 5%. Di questo 5%, la stragrande maggioranza lavorava in aziende di proprietà della famiglia. In definitiva, a quanto mi era dato di capire, chi non possedeva della terra era impossibilitato a dirigere un'azienda agricola. La mia scelta preuniversitaria era caduta sulle scienze agrarie, proprio perché la facoltà, oltre alle consuete discipline biologiche e agronomico-zootecniche, comprendeva materie statistico-economiche e materie tecniche (meccanica, idraulica, costruzioni), allo scopo di formare un laureato completo, in grado di prendere le redini di un'azienda dal principio alla fine. Non comprendevo come mai lo sbocco naturale dovesse essere diverso da quello per il quale la facoltà era stata concepita. Mese dopo mese, esame dopo esame, i motivi del fenomeno mi diventavano sempre più chiari: diversamente da quanto appariva dai colorati inserti pubblicitari delle riviste specializzate, dalle folkloristiche feste di paese, o dalle festose e spensierate trasmissioni televisive di "Linea verde", l'agricoltura italiana si dibatteva (e si dibatte) in un gravissimo momento di crisi economica. Se l'impressione dell'osservatore esterno può essere di crisi passeggera, perché l'agricoltore in miseria si adatta a mangiare pane e cipolla, e ha sempre maggiori risorse rispetto a un operaio disoccupato e sfrattato (una casa, l'orto, il latte, le uova), è anche vero che il perseverare di questa situazione lo porta a non fare investimenti e a tenere la terra improduttiva. L'agricoltore che fatica a rimanere in attivo a fine anno, non solo non sarà interessato a piccoli miglioramenti nel benessere dei suoi animali o dei suoi terreni, ma neanche si sognerà mai di stipendiare un laureato in agraria a 20 milioni l'anno, perché gli ammoderni i metodi di conduzione dell'azienda (né tantomeno vorrà sentir parlare di novità omeopatiche che non portino un vantaggio economico immediato). Ma a che cosa è dovuta questa crisi economica in cui versa l'agricoltura? Non è qui luogo per una approfondita analisi dei motivi di crisi dell'agricoltura italiana, che sono ben descritti in altri testi più specializzati. Tuttavia si rende necessario un accenno che metta in risalto come tale crisi sia dovuta principalmente al diffondersi dei metodi di agricoltura industrializzata che, causa di un immediato benessere in principio, hanno poi portato allo sfacelo l'agricoltura nazionale. Subito dopo la seconda guerra mondiale, in concomitanza con il grande boom industriale, si ebbe l'avvio di un rapido processo di meccanizzazione dei metodi colturali. Con il diffondersi di trattrici e di macchine per ogni tipo di lavorazione (dai voltafieno alle trebbiatrici), ci si liberava dalla pressante esigenza di manodopera, che aveva caratterizzato l'organizzazione economica e sociale di molte zone rurali nell'anteguerra. Via via che la manodopera diventava superflua, l'eccedenza di questa veniva assorbita dall'industria, creando i prodromi del fenomeno dell'urbanizzazione delle popolazioni rurali, che ancora oggi non è concluso. Inizialmente, come è ovvio, vi fu un lieve aumento nei proventi del conduttore d'azienda, che non doveva più pagare decine di prestatori di manodopera. Ben presto però il confronto tra le fatiche e i redditi di chi lavorava in città e di chi era rimasto in campagna, portò questi ultimi a rivendicazioni salariali che spinsero i conduttori d'azienda a rendersi, per quanto possibile, indipendenti dalle necessità di manodopera. La diffusione pochi anni più tardi di un certo numero di prodotti chimici per l'agricoltura, sembrò risolvere il momentaneo disagio, offrendo rese più alte per unità di superficie, con l'uso di fertilizzanti chimici e di antiparassitari, e risparmio di costosa manodopera con l'uso dei primi diserbanti. L'arrivo poi di nuove produttivissime varietà di sementi ibride, sembrò dare il meritato benessere all'agricoltore, che finalmente era in grado di coltivare ampie estensioni di terreno con alte rese e pochissimo uso di manodopera. In realtà le cose stavano diversamente. Dai primi entusiastici risultati, ottenuti su terreni coltivati biologicamente per centinaia di anni con rotazioni, sovesci, letamazioni, si passò presto a una seconda fase: se si volevano mantenere costanti le alte rese iniziali, occorrevano quantità crescenti di prodotti chimici e nuove varietà sempre più produttive (a causa dell'impoverimento delle dotazioni naturali dei suoli in microelementi, sostanza organica, struttura e friabilità, microorganismi e lombrichi). L'agricoltore in questo modo si rendeva sempre più dipendente dai mezzi meccanici e dai prodotti chimici, del cui ausilio non poteva più fare a meno. Da questo stato di cose (tutt'oggi perdurante) sono derivati due ordini di problemi, dei quali succintamente ci occuperemo: il primo è di tipo economico, e da esso principalmente deriva l'immobilismo tipico dell'ambiente agricolo. Il secondo è di tipo ambientale, e da esso deriva tutta una serie di conseguenze sociali, che toccano o presto toccheranno anche chi di agricoltura non si è mai interessato. Partiamo dal problema economico. La dipendenza totale dell'agricoltore da macchinari (camion e trattori piuttosto che mungitrici meccaniche e computer), da fertilizzanti minerali, da antiparassitari e diserbanti, e da sementi ibride, rende minima la autosufficienza aziendale, e incide pesantemente sul ricavo derivante a fine anno dalla produzione lorda vendibile. Ogni anno che passa, il prezzo di tutti gli input aziendali, cresce a ritmo di inflazione. Non altrettanto si può dire del prezzo dei prodotti agricoli, che già cresce lentamente a livello di utente finale, e rimane praticamente invariato di anno in anno per quanto riguarda il produttore, che si vede poi privato di gran parte del guadagno da un ingente numero di intermediari (dal grossista di zona al fruttivendolo). Succede così che se gli investimenti esterni di una azienda in un dato anno pesano per il 75% sui ricavi lordi, l'anno successivo peseranno per l'80%, l'anno successivo ancora per l'85%, e così via. Conseguenza diretta di questo fenomeno è stato il lento abbandono in Italia di tutti i terreni che, per un motivo o per l'altro, fossero meno produttivi. Poiché la situazione geologica, idrologica e climatica in Italia assume caratteri molto particolari, le conseguenze economiche dell'industrializzazione si sono fatte sentire maggiormente da noi piuttosto che altrove. Infatti, come già criticamente osservava mio nonno, il prof. Ugo Pratolongo nel suo libro del 1920 "Problemi di agricoltura italiana", l'Italia è costituita dal 35,7% di montagne, dal 42,1% di colline, e solo dal 22,2% di pianure, e nessuno dei grandi paesi europei presenta una ripartizione meno favorevole. "L'Italia agricola", osserva ancora, "non sta nelle terre di piano, ma dove una vite o un ulivo cresce su un pugno di terra appena trattenuta dai sassi, dove la zappa non trova terreno per scavare il solco, dove un aranceto verdeggia al sole e non una goccia d'acqua sfugge alla saggia economia irrigua." Con l'aumento dei prezzi dei prodotti chimici e dei mezzi meccanici, dunque, chi non produceva più di tanto, a parità di sforzo, non riusciva più a contenere i costi nei ricavi, e lavorava in perdita. Con l'abbandono graduale delle terre più difficili da coltivare (il 77,8% del suolo italiano) si perdeva però senza possibilità di recupero, un patrimonio nazionale millenario di trasformazioni fondiarie, sacrifici, cultura, che tanto ha influito nel caratterizzare usi e costumi, radici e speranze di gran parte del popolo italiano. In realtà l'abbandono non era totale, ma si creava un fenomeno di agricoltura a due velocità: una produttiva, ancora in grado di controllare costi e bilanci, relegata nelle pianure più ricche, capaci di sfruttare i costosi mezzi chimici e meccanici di coltura; la seconda, improduttiva, gestita da persone sempre più anziane, che rifiutavano l'ipotesi di abbandonare le proprie radici etniche e culturali. Col passare degli anni, però, e con l'ulteriore aggravarsi dell'onere dei costi dei prodotti industriali, il confine tra le due agricolture è andato sempre più miscelandosi, per la difficoltà di reperire terre sempre più facili da coltivare e per la necessità di rese sempre più alte che giustificassero l'uso di ingenti quantità di costosi prodotti. Si è avuto così il progressivo abbandono, dapprima delle terre montagnose più difficili da coltivare, poi, gradatamente, l'abbandono delle terre collinari, che comportavano più lavoro, e infine si è verificata una selezione in favore dei soli terreni di pianura ricchi e irrigui, da coltivare solo con le specie di maggiore convenienza economica (sempre le stesse), che permettessero di far fronte alle crescenti spese energetiche. Da ciò è derivato un costante spopolamento delle campagne (che rimanevano popolate solo da vecchi, che non avevano la forza di cambiare vita), con la confluenza nei grandi centri urbani di un gran numero di persone che, insieme alle proprie radici, perdevano spesso anche la capacità di adattarsi a situazioni nuove e a ritmi di vita a loro estranei. La forzata urbanizzazione ha portato con sé un gran numero di tensioni sociali, che tuttora sono lungi dall'essere risolte. Infatti se prima, nell'annata sfortunata, l'agricoltore salvava sempre qualcosa per sé e per la sua famiglia, non altrettanto si può dire per l'operaio licenziato e sfrattato, che oltre ai tramonti e alla serenità di un tempo, ha perso anche, in città, il minimo per sopravvivere. Allo stato in cui siamo oggi, ci sono pochissime aziende italiane con gestione di tipo industriale, in grado di mostrare un attivo di bilancio. La maggior parte degli agricoltori, già contenta di non doversi più spaccare la schiena a lavorare la terra, è convinta di essere in attivo solo perché il più delle volte non considera nel bilancio il proprio stipendio e il salario dei propri familiari, gli interessi passivi sulle spese, le quote di ammortamento dei macchinari, e altri costi reali, che a prima vista non appaiono. In realtà si tratta di un'economia di sopravvivenza che non consente investimenti, e che viene portata avanti al solo scopo di non dovere abbandonare le proprie radici. Non c'è da meravigliarsi che in queste condizioni nessuno sia in grado di assumere un laureato e di programmare ristrutturazioni nel lungo periodo. L'agricoltore vive (o sopravvive) alla giornata, rifiutando qualunque pratica che causi anche un piccolo aggravio di manodopera, o un lieve calo nelle rese. Viene così rifiutato dai più un ritorno anche parziale a metodi di agricoltura biologica, o perlomeno più rispettosi dell'equilibrio agricoltura-ambiente, perché, a fronte di enormi vantaggi nel lungo periodo (primo fra tutti la possibilità di sopravvivenza dell'attività agricola), richiedono un minimo sforzo iniziale di riconversione, che rappresenta un costo in termini economici. Anche i timidi sforzi di chi vorrebbe invertire il corso degli avvenimenti, vengono spesso frustrati da un esercito di laureati che lavora alle dipendenze dell'industria chimica, e che forza quotidianamente la promozione, la produzione e la vendita di nuove molecole sempre più efficaci e, guarda caso, sempre più squilibranti. Questo tipo di crisi non è una caratteristica peculiare dell'agricoltura italiana, ma rispecchia in piccolo quella che sta assumendo i contorni di una grave crisi mondiale. Basta pensare al fatto che nel settembre dell'85 è stato organizzato in America (patria dell'agricoltura industrializzata) un concerto (Farm aid) per raccogliere fondi per aiutare il mondo agricolo, alle prese con gravi difficoltà economiche. Per uscire dal nodo economico che affligge l'agricoltura italiana, e per valorizzare l'utilizzo di tutti quei terreni di difficile coltivazione, che rappresentano la stragrande maggioranza delle terre nazionali, una via d'uscita c'è. Richiede però uno sforzo di valorizzazione di tutte quelle pratiche colturali che la tradizione ci ha passato, che consentano un maggior equilibrio uomo-agricoltura-ambiente, e agiscano nel rispetto degli ecosistemi dai quali viene tratto profitto. Certo occorrerebbe ben altra sensibilità da parte degli organi politici preposti al controllo e allo sviluppo dell'agricoltura. Essi, invece di elemosinare sconti e trattamenti speciali a livello di comunità europea, potrebbero affrontare i mali alla radice, proponendo una progetto di ristrutturazione globale. Tale riforma dovrebbe spostare il profitto verso le aziende agricole, sottraendolo in parte a intermediari e fornitori, spingendo gli agricoltori (magari incentivandoli) ad assumere personale specializzato nel controllo colturale e ambientale insieme (in pratica dei laureati, che smetterebbero così di vendere fitofarmaci). Uno dei primi passi da affrontare potrebbe essere il condizionare l'utilizzo di fitofarmaci alla prescrizione da parte di un agronomo, ma molti altri passi concreti potrebbero essere fatti. Non bisogna però nutrire troppe speranze in un intervento politico, in quanto, come è tristemente noto, l'azione dei politici è guidata dai gruppi di potere industriali che li hanno fatti eleggere. Occorre quindi rimboccarsi le maniche e fare tutto quanto è nelle nostre possibilità, per fare sì che il processo si inverta. L'omeopatia, come scienza in grado di coinvolgere interessi industriali, e quindi politici, può porsi come valida alternativa al gioco al massacro proposto dall'industria chimica. Le particolarità della scienza di Hahnemann si pongono infatti al servizio di chi non si accontenta di vedere i campi come sterile substrato per la coltura di ibridi alloctoni produttivissimi e pieni d'acqua, da proteggere mediante il sistematico sterminio di qualunque micro o macro-organismo osi avvicinarsi. L'omeopatia offre un'alternativa a chi non vuole ridurre la propria vita nei campi a una continua somministrazione di veleni (mascherati e protetti fino all'inverosimile dentro ad abiti da marziani), che lasciano dietro di sé l'innaturale silenzio della morte. L'omeopatia offre metodi di cura e controllo che agiscono dall'interno dell'organismo, e lasciano che sia quest'ultimo a scegliere il rimedio più efficace per difendersi. Perché ciò sia possibile non è solo auspicabile, ma indispensabile, che l'organismo si trovi all'interno di un ecosistema equilibrato. L'individuo deve avere la possibilità di rispondere positivamente al trattamento grazie a una serie di fattori (climatici, idrici, pedologici, nutrizionali, strutturali, genetici, predisponenti) di cui l'agricoltore è obbligato a tenere conto. Muovendosi in questo modo, ci si renderà presto conto che l'uso di specie adatte al luogo di coltivazione, la miscelazione varietale, le consociazioni e rotazioni, l'attenzione allo stato del suolo (sia come componenti organici e inorganici, sia come struttura), il rispetto dei micro e macro-organismi estranei, la potatura coerente e, in poche parole, l'uso di tutte quelle cure necessarie al mantenimento della pianta in equilibrio con il proprio ecosistema, renderà superflua la maggior parte dei trattamenti chimici attualmente in uso. Il prodotto omeopatico, concepito secondo la logica che discuteremo più avanti, sarà sufficiente, con la sua blanda e rispettosa azione di stimolo endogeno, a riequilibrare gli inevitabili squilibri indotti dalla variabilità naturale, e a prevenire il diffondersi delle malattie e delle carenze più gravi. Sarà interessante riprendere questo discorso quando avremo visto più da vicino i risultati sperimentali ottenuti in laboratorio, e quando avremo tratto da essi le necessarie considerazioni, conquistando la sufficiente familiarità con l'argomento. Alcuni, forse in buona fede, oppongono a queste considerazioni il fatto che l'umanità ha bisogno di cibo, e che senza fitofarmaci e concimi chimici non ci sarebbero risorse sufficienti per sfamare tutti. Ben altri sono i nodi da affrontare per la risoluzione del problema alimentare nel mondo. Non è qui certo luogo adatto per un discorso troppo approfondito, ma su certi argomenti non è possibile tacere. A livello di comunità economica europea, si registrano dei dannosissimi eccessi di latte, burro, cereali, contro i quali si stanno sprecando leggi per arginare i danni derivanti dalla sovraproduzione, con "quote latte" e premi per l'abbattimento dei capi. Alcuni importanti gruppi del settore agro-alimentare stanno facendo a gara per aggiudicarsi il diritto e l'autorizzazione a trasformare tonnellate e tonnellate di cereali commestibili in alcool per usi energetici, e ancora c'è chi ha il coraggio di sostenere che le carenze alimentari dei paesi in via di sviluppo siano dovute alle insufficienti produzioni dei paesi industrializzati. Ma c'è di più: vastissime zone di paesi del terzo mondo adibite a coltura, non sono utilizzate per produrre cereali, o altri generi di prima necessità, ma cotone, caffè, cacao, arachidi, banane, da esportare nei paesi industrializzati. Il ricavato delle suddette colture viene poi reinvestito nell'acquisto di costosi macchinari e fitofarmaci (quando non di armi, di cui l'Italia è uno dei maggiori paesi produttori), che vengono reperiti, guarda caso, nei paesi industrializzati. Accade così che migliaia di ettari fertili vengano lavorati da 5 o 6 persone soltanto, e diano reddito al solo conduttore, mentre potrebbero dare sostentamento e nutrizione a centinaia di famiglie, nel pieno rispetto delle caratteristiche ambientali, se coltivati biologicamente in modo variato. Non si cada perciò nell'errore di ritenere che i metodi di coltivazione industriali siano fonte di benessere e di nutrizione per il terzo mondo. Rappresentano anzi un ulteriore mezzo per lo sfruttamento di quelle che, solo formalmente, non si chiamano più colonie. Al principio del capitolo si era accennato a due ordini di problemi: uno di tipo economico, del quale fino ad ora si è discusso; l'altro di tipo ambientale. Se infatti il diffondersi di mezzi meccanici e fitofarmaci ha avuto pesanti ripercussioni sull'economia del mondo agricolo, altrettanto pesanti ripercussioni ha avuto e avrà l'uso sconsiderato di prodotti chimici, sui delicati equilibri ambientali. Non è certo sufficiente lo spazio di queste righe per inquadrare con completezza il problema. Già molto si è parlato dell'inquinamento ambientale dovuto ai prodotti chimici usati in agricoltura, e non è mia intenzione ripetere luoghi comuni che la gente sente lontani. Mi importa invece tracciare un rapido quadro che metta in luce come la pratica agricola quotidiana sia in stretta relazione con la salute di tutti, e come l'approccio biologico-omeopatico alla questione, consenta di invertire il processo di degrado ambientale, purtroppo già da tempo innescato. Prima di tutto è importante considerare l'approccio logico al problema: chi usa fitofarmaci velenosi segue la logica dello sterminio. Non tiene conto del fatto che la pianta vive in mezzo a un ecosistema; non tiene conto del fatto che il pullulare di un patogeno può essere dovuto a un fattore di squilibrio correggibile; non tiene conto di niente: stermina e basta. Non sa l'agricoltore (perché non può saperlo) che così facendo libera una nicchia ecologica che presto sarà riempita da altri; non sa che così facendo probabilmente uccide anche i predatori naturali del parassita; non sa che impedisce alla selezione naturale di fare il suo corso, eliminando le piante più fragili: l'unica cosa che vede è l'afide o il fungo, contro i quali deve irrorare l'aficida o il fungicida. L'agricoltore non sa (perché nessuno glielo dice) che magari i tessuti delle sue piante sono gonfi e sensibili a causa dell'eccesso di nitrati che lui stesso ha somministrato al terreno, né gli importa. C'è l'afide, e va ucciso: qualunque altro tipo di intervento costa fatica o denaro, o consulenza, e va perciò evitato. Così facendo la coltura agricola si è ridotta a una produzione di tipo industriale, in cui le piante sono organismi deboli e viziati, che hanno possibilità di sopravvivere solo grazie a costosi sistemi di protezione. L'omeopatia si situa dalla parte opposta di questa concezione, e tende a stimolare e favorire dall'interno (a mezzo di un messaggio di equilibrio) l'armonico sviluppo della pianta, in equilibrio con il proprio ecosistema, che, in quanto naturalmente stabile, la protegge dalle piccole variazioni ambientali. Il prodotto omeopatico inoltre non riversa nell'ambiente sostanze chimiche di sintesi i cui effetti non sono stati controllati, ma dosi infinitesimali (o meglio messaggi) che agiscono solo su un obiettivo specifico, senza effetti collaterali. L'adattamento dell'agricoltore all'uso di sostanze chimiche, ha provocato conseguenze di una certa entità sull'ambiente, che oltre a essere localmente squilibrato dai trattamenti, si troverà inquinato anche oltre i ristretti confini dell'azienda. Così è per un'invasione innaturale di ragnetti rossi provocata da continui trattamenti con Carbaryl, che faranno da focolaio di infezione per le aziende limitrofe. Così è per i diserbi con 2,4D che, spruzzati in giornate ventose, possono causare seri danni a vitigni vicini alla coltura diserbata. Così è per certi diserbanti o geodisinfestanti, che impediscono la messa a coltura di certe specie per alcuni anni. Così è per l'inquinamento delle falde acquifere sotterranee causato dalle eccessive concimazioni con nitrati. Così è per l'inquinamento recente delle acque di Lombardia con Atrazina, abbondantemente utilizzata su tutte le colture di mais, che non faciliterà certo la crescita di piante sensibili a tale principio attivo. Volenti o nolenti quindi, insieme alle radiazioni di Cernobil, gli abitanti della Lombardia, nella prima metà dell'86, hanno bevuto tanta buona Atrazina, con il compiacimento delle strutture preposte al controllo del fenomeno, che hanno subito provveduto a decuplicare i limiti di tolleranza della sostanza nell'acqua potabile, dimostrando come al solito che noi, in Italia, siamo i più furbi di tutti. Il risultato di tale atteggiamento si è potuto constatare nella drammatica degenerazione del problema nel Novembre '86, con il Po avvelenato da Atrazina e Simazina, e un gran numero di abitanti della Pianura Padana costretti a rifornirsi di acqua dalle autobotti. Qualche settimana prima si era avuto un drammatico preavviso in Svizzera, con lo scarico involontario nel Reno di sostanze velenose, utilizzate dalla Sandoz per la produzione di antiparassitari. La catastrofe ecologica provocata con la morte di tutti i pesci del fiume, ha fatto un certo scalpore. I soliti giustificatori ufficiali hanno finto di scandalizzarsi parlando di "imprevisto" o tutt'al più di "incidente". Nessuno però ha colto il nocciolo del problema: le stesse sostanze velenose, se non fosse successo alcun "incidente", si sarebbero comunque riversate nell'ambiente, provocando gli stessi danni capillarmente in centinaia di località diverse e lontane dalla ridente Svizzera. La situazione definita ancora "di emergenza" a dieci giorni dall'evento inquinante, dopo che il Reno aveva distribuito in ogni dove il suo pesante fardello, non era perciò sostanzialmente diversa da quella di ordinaria amministrazione, con la vendita capillare dei veleni sacco dopo sacco. Conoscendo la ben nota solerzia degli organi preposti al controllo di tali fenomeni, è facile intuire che la situazione, da qui in avanti, può solo peggiorare. Ma i fitofarmaci, oltre che nelle acque, finiscono anche, purtroppo, proprio dove sono stati indirizzati, e cioè sulla frutta e sulle verdure. I residui di fitofarmaci rimasti sulla frutta costituiscono un problema che è stato sempre preso sottogamba. Statistiche precise, diffuse sia in Italia che all'estero, indicano la presenza di sostanze tossiche sui prodotti della terra, in percentuali variabili, ma sempre preoccupanti. Esiste una legislazione severissima in Italia, che nessuno però rispetta. Molte sostanze hanno i cosiddetti "intervalli di sicurezza" di 15 o 20 giorni, e vengono somministrate tranquillamente 1 o 2 giorni prima della raccolta. Le insalate, con le stesse sostanze, vengono irrorate e raccolte quotidianamente. Decine di principi attivi velenosissimi ad azione sistemica, penetrano nel frutto o nel legume per proteggerlo da insetti e parassiti, e lì restano fino a giungere sulla nostra tavola. Questa è la drammatica realtà: ogni giorno decine di principi attivi diversi di origine sintetica e dagli effetti più o meno sconosciuti, siedono a tavola con noi, squilibrando i nostri delicati meccanismi di controllo interno, già messi a dura prova dalla vita non facile che conduciamo. Quanti strani mali di testa, o sensazioni di debolezza, vomiti o dolori ossei ci sono stati causati da queste sostanze senza che lo sapessimo? E quanti tumori hanno avuto queste sostanze come concause attive? L'episodio recente del vino sofisticato al metanolo, dei cui devastanti effetti ci si è accorti solo dopo alcune morti in tempi ravvicinati, ha confermato la estrema difficoltà che esiste nel riconoscere le cause reali dei numerosi decessi misteriosi che avvengono frequentemente. Tuttavia questo non è l'unico aspetto deleterio dell'uso dei prodotti chimici in agricoltura. Altrettanto importante è il controllo della qualità biologica dei prodotti della terra, che purtroppo viene completamente ignorato dalle istituzioni responsabili. L'uso sconsiderato o comunque poco controllato di concimi chimici, così come viene attuato nella stragrande maggioranza dei casi, altera la composizione percentuale dei prodotti finali. L'alterazione più diffusa riguarda il tenore di acqua. Piante concimate irrazionalmente originano organi ingigantiti e gonfi, che fanno la gioia del produttore, a causa del notevole aumento di peso (aumento smascherato da chi, per esempio, commercia prodotti essiccati). Ma, in misura variabile a seconda delle dosi e degli elementi usati in eccesso, variano anche molti altri fattori, come il contenuto in aminoacidi essenziali, le percentuali di elementi minerali antagonisti ad azoto, fosforo e potassio (ad esempio il magnesio), il tenore in nitrati (sempre pronti a trasformarsi in nitriti, causa di numerose patologie umane e animali), le quantità di indispensabili oligoelementi. Tutte queste variazioni causano quotidianamente carenze qualitative nei cibi, che limitano sensibilmente le nostre capacità endogene di difesa nei confronti dei fenomeni di aggressione esterna. Non sta a me, qui, citare in dettaglio i numerosi esperimenti che hanno confermato l'importanza di alcuni microelementi nella conservazione della salute umana e nella prevenzione della diffusione di alcune malattie. E' sufficiente constatare come spesso, non trovando nell'alimentazione quotidiana le sufficienti quantità di enzimi, coenzimi, sali minerali, oligoelementi, aminoacidi essenziali e altri componenti nobili, si aumenta la quantità di cibo ingerito (sempre acquoso e zeppo di pesticidi) per raggiungere almeno in parte i fabbisogni necessari. Così facendo si genera una serie di patologie da eccesso di alimentazione, che potrebbero essere efficacemente combattute con l'assunzione di minori quantità di alimenti, a composizione più equilibrata e completa. La qualità biologica degli alimenti viene in effetti studiata solo nei casi in cui l'insufficienza di certi componenti impedisce una trasformazione industriale del prodotto. Si scopre così che le varietà di grano più produttive danno farine che non consentono la panificazione, e che i latti prodotti dalle vacche italiane nutrite in un certo modo non consentono la coagulazione a formaggio, senza l'aggiunta di latte in polvere, dimostrando così che in tutti gli altri casi di utilizzo diretto dell'alimento, il decadimento biologico è passato totalmente sotto silenzio. A chi sostiene che, tuttavia, la sopravvivenza media dell'individuo e' aumentata nell'ultimo cinquantennio, rispondo che la causa non risiede certo nella qualità degli alimenti, quanto piuttosto nella schiacciante vittoria riportata dalla medicina nei confronti delle malattie infettive e della mortalità infantile. Mentre però i decessi per malattie infettive si sono ridotti quasi a zero, in continua crescita sono invece oggi le malattie di tipo degenerativo, come il cancro e le malattie cardiovascolari. Stiamo quindi avviandoci nella direzione di una qualità della vita sempre più scadente, che non può riservarci che sorprese negative se non ci adoperiamo per arrestare il decadimento qualitativo degli alimenti. Qualunque trattamento di tipo omeopatico, agendo dall'interno dell'organismo sfasato per ricondurlo alla salute mediante stimolazione di una risposta endogena, può essere efficace solo nel rispetto di tutti i fattori che a tale equilibrio dinamico contribuiscono. L'omeopatia può quindi inserirsi come strumento terapeutico, o di incremento produttivo, solo in un contesto di agricoltura biologica. Con agricoltura biologica però, non si intende un'agricoltura che rigetti dogmaticamente qualunque prodotto chimico e qualunque processo di meccanizzazione, ma semplicemente un'agricoltura che abbia rispetto di tutti i fattori legati alla vita della coltura (suolo, stagioni, microorganismi, cure colturali), per la produzione di un alimento vivo, equilibrato, biologicamente completo, dall'utilizzo del quale si riceva un salutare nutrimento, che ci consenta di conservare la salute il più a lungo possibile. L'utilizzo su larga scala di fitofarmaci omeopatici, oltre ad annullare il problema dell'avvelenamento da residui sui prodotti, e quello dell'inquinamento ambientale per diffusione indesiderata dei principi attivi, costringe quindi a un uso moderato ed oculato di concimi chimici, e a un'integrazione di tutte le pratiche colturali note e meno note, per la conservazione della salute delle piante coltivate. In tale ottica verrebbe sprecata molta meno energia nei campi, con un conseguente risparmio nei costi di produzione, e si ricomincerebbero a coltivare anche i terreni meno privilegiati, la cui messa a coltura tornerebbe ad essere redditizia. Si riavrebbe un decentramento della popolazione lavorativa, e la disponibilità di alimenti saporiti e completi, orientati a meglio conservare la salute di tutti, con immenso guadagno sociale e sanitario. In quest'ottica, forse un po' utopica, vista l'enorme forza contrattuale dell'industria chimica nell'imporre e giustificare l'uso dei propri prodotti, mi avviavo a cercare un istituto, all'interno dell'università, che fosse intenzionato ad accettare di appoggiare un lavoro sistematico di ricerca, che mostrasse la possibilità di applicare l'omeopatia all'agricoltura. Fui incoraggiato a presentarmi all'istituto di Patologia vegetale dalla notizia che già l'istituto stesso aveva in corso delle ricerche sulla stimolazione indotta da alcune sostanze ormonali, sulla risposta di certe piante a funghi parassiti. Cercai di giustificare il passaggio logico dall'ormone che agisce in dosi bassissime, all'omeopatia, che agisce in dosi infinitesimali, e mi riallacciai al concetto di stimolazione endogena con una relazione di alcune pagine, che presentai al direttore dell'istituto. Fui così accettato come tesista, e potei in tal modo cominciare la mia attività sperimentale, grazie allo spirito aperto di due professori. Essi, pur lavorando da anni in un campo opposto a quello in cui volevo cimentarmi io, possedevano quella preziosissima capacità autocritica, che rende possibile guardare oltre, senza adagiarsi sulle conquiste fatte. Se esistesse un numero maggiore di docenti in grado di recepire le novità proposte dagli studenti, appoggiandole all'interno del proprio istituto, probabilmente molti argomenti tradizionalmente esterni alle università, sarebbero oggi più di attualità. L'incontro che ebbi con la vita di laboratorio, non fu comunque dei più tranquilli, e mi diede modo di fare alcune osservazioni sulla ricerca universitaria in generale. Ho dovuto constatare che la ricerca svolta in laboratorio tende a favorire l'identificazione di principi attivi con azione drastica, indipendentemente da tutti i fattori correlati. Infatti la totale astrazione degli organismi campione dalle condizioni naturali di sviluppo, impedisce il controllo di tutte le conseguenze che può avere la sostanza sugli altri componenti dell'ecosistema di cui l'organismo fa parte. Possono così venire studiati gli effetti diretti di un principio attivo, ma quasi mai vengono approfondite le sinergie con altri prodotti, e comunque le interazioni con gli elementi ambientali non presenti in laboratorio (temperature alte, siccità, altri microorganismi, altre sostanze chimiche). La stessa logica di spezzettamento della realtà è presente anche nella struttura stessa delle facoltà universitarie, che tendono più a separare che a integrare le diverse materie, creando troppo spesso laureati iperspecializzati che non hanno più una visione globale della materia studiata (tali iperspecializzazioni si rivelano per ciò che sono, in certi titoli di tesi o di ricerche, che hanno perso qualunque contatto con la realtà). Vengono così ad essere sfavorite tutte quelle ricerche tese a individuare fattori di riequilibrio ad azione moderata, che lavorano in sinergia con tutti i componenti del sistema vivente in oggetto. Questa discriminazione origina la messa a punto di un gran numero di composti, spesso tossici, che interferiscono pesantemente dall'esterno con gli organismi ai quali vengono somministrati, in quanto i loro drastici effetti sono facilmente riconosciuti in laboratorio. Il fenomeno è diffuso anche in campo medico, e raggiunge punte di follia nella continua sintesi di nuovi pericolosi antibiotici, quotidianamente messi fuori uso dalla nascita di ceppi batterici resistenti, mentre nessuno trova il tempo di indagare sulle cause psicosomatiche, alimentari, iatrogene, che rendono il malato predisposto all'infezione. Per una indagine approfondita che tenga conto del maggior numero possibile di interazioni dovute all'uso di una certa sostanza, occorre in effetti un tempo proporzionale al numero di variabili sotto controllo. Risulta perciò spesso difficile impostare e portare a termine ricerche di questo tipo, come accade con gli esperimenti in pieno campo. M'ingegnai quindi per svolgere le mie prove, con i materiali (chimici e genetici) che avevo a disposizione, totalmente in laboratorio, visto che l'obiettivo che mi ponevo era quello di dimostrare statisticamente la validità di un principio, che fosse poi applicabile in molti altri casi. I risultati da me eventualmente raggiunti, sarebbero stati in ogni caso parziali, in quanto avulsi dall'ecosistema completo di cui l'organismo trattato avrebbe dovuto fare parte. Non si può pretendere che una piantina di fagiolo seminata in epoca non adatta, mantenuta al chiuso a temperatura, umidità e illuminazione innaturalmente costanti, contenuta in un vasetto di terriccio sterilizzato, abbia la stessa risposta al trattamento, di una pianta germinata spontaneamente, alla luce del sole e della stelle, che vive il complicatissimo mondo delle interazioni con l'ambiente circostante. Purtuttavia, dimostrando una risposta endogena da parte della pianta, seppur debole o parziale, avrei in ogni caso indicato la possibilità di utilizzare nella pratica agricola di ogni giorno, rimedi omeopatici concepiti secondo i criteri individuati nel corso del mio lavoro. L'identificazione delle sostanze e degli organismi adatti da utilizzare nelle prove, il tipo e livello di diluizione da adottare, le dosi da somministrare e la via di somministrazione, e il protocollo sperimentale da usare, sarebbero stati i primi "piccoli" problemi che mi sarei trovato ad affrontare in laboratorio. Luca Speciani, OMEOPATIA E AGRICOLTURA. Testo di 140 pagine pubblicato nel 1987 dalla casa editrice CLESAV di Milano nella collana di Agroecologia.


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