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Percorso di decrescita per liberarsi dalla schiavitù della globalizzazione finanziaria
Creato il 23 maggio 2013 da Veritaedemocrazia[Riassunto di “Conclusioni. L’urgenza di un’alternativa” tratto da “La trappola dell’euro”]
La continua perdita dei diritti, lo svuotamento delle istituzioni democratiche, l’impoverimento sono strettamente connessi all’imperialismo finanziario globale che sottomette i popoli e rende i cittadini sudditi senza possibilità alcuna di liberarsi da una sorte di schiavitù finanziaria. Pertanto il quadro che emerge è drammatico ed è imprescindibile opporre una resistenza popolare a tale imperialismo finanziario attraverso il recupero della sovranità nazionale e monetaria, mettendo in discussione i principi economici della globalizzazione, a partire dalla libera circolazione di merci e capitali. E’ allo stesso tempo imprescindibile orientarsi verso il modello di “decrescita felice”. Misure economiche espansive come quelle della teoria keynesiana si rivelano non efficaci senza dare luogo a misure protezionistiche da parte degli stati nazionali, i quali avendo l’esigenza di finanziarsi tramite il mercato sarebbero comunque invischiati nelle dinamiche della concorrenza-competizione globalizzata e, di conseguenza, politiche di intervento pubblico potrebbero rivelarsi inutili, infatti, gli sforzi fatti dagli stati per le spese di finanziamento pubblico, a causa della libera circolazione di merci e capitali, porterebbero i relativi benefici nei paesi le cui economie sono più competitive e quindi maggiormente capaci di attrarre acquirenti e investitori. In tale circostanza sono opportune misure protezionistiche dell’economia interna dello stato, come la moneta nazionale, la possibilità di stabilire forme di limitazione della circolazione di merci e capitali, una banca centrale che funga da acquirente residuale dei titoli del debito sovrano, esattamente come faceva la Banca d’Italia prima della separazione dal Ministero del Tesoro, avvenuta nel 1981. Per contro, si avrebbero problemi legati al recupero di sovranità, perché tornare alla moneta nazionale, sottraendosi alle logiche della globalizzazione, esporrebbe il paese in una condizione di difficoltà di rapporti col resto del mondo. La principale difficoltà sarebbe l’approviggionamento di materie prime energetiche. L’Italia avrebbe difficoltà soprattutto in quanto importatore di gas naturale e, nella quasi impossibilità di differenziare le fonti di approviggionamento, non potrebbe far altro che scegliere la strada del rendersi autonoma dai fornitori di materie prime energetiche. Per rendersi autonomi energeticamente è necessario, ed importante dal punto di vista ecologico, dotarsi di impianti di basso impatto ambientale e con tempi di costruzione rapidi, sfruttando le fonti di energia rinnovabile in misura tale da coprire almeno metà del fabbisogno nazionale di energia elettrica, che attualmente è coperto solo per un quarto. La strada per la riconquista della sovranità passa quindi, inevitabilmente, attraverso un percorso di affrancamento dalla dipendenza di materie prime energetiche estere. Ma ciò non basta a rendersi totalmente autonomi dall’uso di fonti fossili estere, risulta quindi necessario riuscire a diminuire significativamente, nel tempo, la domanda di energia interna. Quindi, per liberarsi dalla necessità di produrre energia da fonti inquinanti, occorre ridurre la domanda di energia investendo nel risparmio energetico e abbandonando il consumismo, investendo nella produzione di merci durevoli e riparabili, cioè seguendo un modello di decrescita. La decrescita non indica la necessità di una continua diminuzione del PIL, decrescita vuol dire non essere costretti a dover continuamente aumentare la produzione di merci e affiancare ad esse i beni demercificati di autoproduzione o oggetto di scambio al di fuori del mercato. Decrescita vuol dire recupero delle capacità produttive locali, “chilometro zero”, “filiera corta”, autonomia alimentare, reti solidali di autoproduttori, liberazione dalla schiavitù nei confronti del petrolio e delle fonti energetiche inquinanti. Decrescere non significa diventare più poveri, infatti non verrebbe meno la ricchezza materiale posseduta con l’utilizzo di beni durevoli e riparabili, ottenendo importanti benefici dal punto di vista ecologico e del risparmio energetico. Ma produrre di meno comporta meno lavoro, salvo un primo periodo di transizione, dove la domanda di lavoro aumenterebbe rispetto ad oggi per effetto degli investimenti nello sviluppo delle fonti rinnovabili e per quelli volti alla diminuzione della domanda di energia. Per evitare la disoccupazione si renderebbe necessario distribuire equamente la quantità di lavoro a disposizione, abbassando il tempo di lavoro pro-capite e attuando una politica di forti investimenti pubblici, al fine di non ridurre il reddito reale e il potere d’acquisto dei lavoratori, nel fornire servizi pubblici di qualità (scuola, sanità, istruzione, trasporti pubblici, ecc.) costituendo così una forma di reddito complementare. A conclusioni simili perviene anche Serge Latouche, uno dei più importanti teorici della decrescita, il quale elogia poi alcuni Paesi sudamericani, come l’Ecuador e la Bolivia, per il loro tentativo di superare la concezione industrialista e predatoria della guerra alla natura in favore della ricerca dell’autonomia, della sovranità alimentare ed energetica nel rispetto dell’equilibrio ecologico. Dunque decrescita vuol dire produrre di meno ma conduce anche a investimenti statali indirizzati a servizi pubblici di qualità: è in quest’ottica che il keynesismo, nato come pensiero economico di crescita, incontra il pensiero della decrescita. E’ bene però far tesoro degli insegnamenti della storia e quindi tener presente che un forte ruolo dello Stato nell’economia si accompagna al rischio di derive burocratiche, quando non addirittura autoritarie ed oppressive. Tale deriva può essere impedita se le decisioni politiche diventano il risultato di processi deliberativi trasparenti e partecipativi quale è la cosiddetta “democrazia partecipativa”, un tema tanto ampio quanto importante e per questo imprescindibile nell’ottica della liberazione dalla schiavitù finanziaria per la conquista della sovranità nazionale e monetaria.
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