Buongiorno a tutti!
Puntuali come sempre, ecco a voi la nuova storia per la rubrica
“5 words for one story”
Le parole di oggi mi sono state regalate da Frecciarosa del blog
Il Monitore Stordito
Le parole di oggi sono:
Musica, Radio, Caffè, Stordito, Amicizia
Non è facile.
Essere i veri proprietari, non che protagonisti della nostra vita, al mondo d’oggi, non è facile per niente.
Ma poi cosa vuol dire veramente: “Essere i veri proprietari della nostra vita”?
Mi chiamo Gaël, ho trentanove anni e ho finito di essere proprietario della mia vita un mese e mezzo fa.
Trovai sulla scrivania del mio box un comunicato che mi convocava nella sala riunioni del signor Deshamps. Il mio capo da dodici anni a questa parte.
Era un bel periodo per me, i miei risultati a lavoro erano davvero migliorati e mi sentivo sicuro per quanto riguardava il mio futuro. Erano due mesi che ogni settimana qualcuno veniva puntualmente mandato a casa, colpa della crisi, dicevano. Quel giorno, quando vidi quella comunicazione, ero felice perché pensavo che quella sarebbe stata la convocazione della vita. Mi sarei ritrovato da li a poco ad essere il vicedirettore dell’azienda e avrei messo sotto torchio tutti i miei tutt’altro che buoni colleghi di lavoro.
Quel giorno non andò così.
Il capo, seduto sulla sua bella sedia di pelle mentre fumava un sigaro, mi disse semplicemente che il mio era uno degli stipendi più alti e che quindi non c’era più spazio per me. Mi diede la lettera di licenziamento e mi accompagnò alla porta tirandomi una lieve pacca sulla spalla, quasi a confortarmi.
In quel momento persi parecchi diritti nei confronti di me stesso.
Passai questo mese e mezzo in casa, cercando di risparmiare il più possibile e di tirare la cinghia.
Sono sempre stato una persona alla quale piaceva divertirsi con gli amici e a dir la verità, il mio conto non aveva mai passato i 1500€ di risparmi.
Lo zero spaccato era quasi arrivato al capolinea purtroppo, dopo quarantaquattro giorni di agonia, il mio conto cominciò a frignare come un bambino piccolo che va in cerca del latte materno.
Mi presentai in banca, ancora una volta davanti ad un uomo seduto sulla sua bella poltrona presidenziale, vestito in giacca e cravatta, che mi disse che secondo lui non avrei mai potuto ridare indietro cinquemila euro più interessi alla sua banca e che mi diede, anche lui, una sonora pacca sulla spalla nel momento in cui mi segnalò con l’altra mano la via per andarmene fuori dalla porta. Nella mia tasca, solo un bel foglio con un timbro recante le lettere “R-E-S-P-I-N-T-O” colorato d’inferno.
In quel momento persi completamente ogni diritto sulla mia vita e il regista era diventato inesorabilmente qualcun’altro.
Piano piano entrai in un giro sbagliato, riallacciando rapporti con quegli esserini che da giovane mi annodavano in tasca i cavi delle cuffie con le quali ascoltavo di nascosto la radio.
Non ero più il giovane di una volta. Non avevo più la forza d’animo che avevo all’ora. Non ho più nessuno con il quale ho il coraggio di parlare di quello che sta succedendo.
Anche gli esserini sono cambiati e sono passati da annodare cuffie a bucare i bicchieri pieni di alcool che si svuotavano magicamente sera dopo sera.
Poggiavo le dita sulla parte superiore del bicchiere, quasi come se dovessi suonarne uno di cristallo. L’indice girava sul margine del bicchiere, prima in senso orario, poi antiorario, fino a scivolare per congiungersi con il pollice per alzarlo e prosciugarlo per l’ennesima volta. Il tutto mentre il mio sguardo assorto guardava lo specchio dietro il bancone che rifletteva in modo strano la realtà, facendomi imprimere alla mia vita cose che non sarebbero mai accadute, tra una visione di lavoro a tempo determinato e uno spiraglio di una famiglia da organizzare e creare dal nulla.
“Un altro, doppio” dissi al barman. Un tipo come lo ero io quando un lavoro ce l’avevo. Dava l’idea di uno con le mani incollate alla cloche della sua vita, come se fosse in grado di compiere un giro della morte completo, andando a toccare quota quattordicimila piedi e spegnere il motore, arrivando a pochi metri dal suolo e riprendendo il controllo con la massima naturalezza possibile. Guardava spesso l’orologio, pronto a chiudere la bottiglia, lavarsi le mani e smontare il turno per andare in qualche altro posto, dove davvero c’era bisogno di lui.
Sentii una voce familiare che mi chiamava sottovoce.
Era Gaston, il mio amico di sempre, uno dei pochi con i quali avevo davvero avuto un’amicizia longeva e veritiera.
Mi sbrigai nell’indossare la maschera di un uomo lontanamente felice e soddisfatto della sua vita, invitandolo a prendere qualcosa da bere prima che il barman alzasse i tacchi.
Anche Gaston diede prima un’occhiata all’orologio che batteva le 22:30.
Anche lui sapeva che aveva qualcosa da fare e che doveva attenersi ad un certo orario.
Era un periodo che davvero notavo come le altre persone avessero un sacco di cose da fare correndo a cento all’ora mentre io rimanevo immobile, con la testa china a fissare il fondo di un bicchiere, seduto su uno sgabello che pareva essere diventato davvero il mio nuovo migliore amico.
Mi rispose che andava di fretta e che era venuto dentro al caffè solo per salutarmi, ma che avrebbe bevuto con me un buon bicchiere di bollicine.
Il suo primo bicchiere di giornata, in coppia con il mio ultimo.
Sorseggiammo i nostri calici con calma e passammo una mezzora piacevole parlando più che altro della sua vita, che stava andando bene e che gli avrebbe riservato fra cinque mesi l’onore di diventare papà per la seconda volta.
Cercai di sviare ogni domanda su di me, perchè non volevo venire allo scoperto con i miei problemi irrisolvibili, cosi mi limitai a sorridere e ad annuire con gli occhi lucidi di uno che è già morto dentro da un pezzo.
Si alzò e infilandosi il cappotto si avvicinava alla cassa mentre mi stava per salutare.
“No! Aspetta! Pago io, non ci vediamo da due mesi ormai, è il minimo!” dissi con l’ultimo sorriso che mi rimaneva nel caricatore.
Lui si discostò dalla cassa e mi lasciò fare.
Ecco come se ne vanno gli ultimi quindici euro di Gaël. Il portafoglio, come la mia vita, non aveva più nulla da dire al mondo.
“Me ne vado anche io Gaston! E’ stato un piacere rivederti ancora una volta!” gli dissi con tono nostalgico.
Mi diede l’unica pacca benevola spalla da due mesi a questa parte e se ne andò sparendo nel buio di Rue de la Roquette in una nube di fumo che proveniva dalla sua immancabile sigaretta accesa. Una pacca che voleva dire davvero “arrivederci amico mio, ci sentiamo presto e in bocca al lupo per la vita”.
La lancetta era vicina al tocco notturno e, stanco, decisi di tornare a casa per l’ultima volta.
Imboccai le scale della metro, scendendole barcollante perchè stordito dal troppo alcool in corpo. Passai davanti ad un violinista che stava eseguendo le sue ultime note di giornata e mentre lo passavo non facevo altro che frugarmi in tasca alla ricerca di qualche spicciolo da dargli. Non ha idea di quanto quella musica mi piaccia e mi faccia stare bene per quel lieve lasso di tempo. Mi portava indietro nel tempo, quando andavo a l’Opera con Jenny, la mia ex ragazza.
La metro arrivò puntuale, le porte si aprirono come sempre e io mi trascinai dentro tenendo la testa bassa. Non avevo il coraggio di guardare quell’artista di strada che con un nulla viveva felice. In quel momento avevo davvero capito di essere sul fondo. E che non sarei mai potuto tornare in superficie.
Fissai per tutta la durata della corsa il biglietto obliterato, quasi a dire a me stesso: “Hai visto, fino all’ultimo hai fatto la persona per bene. Non hai mai fatto nulla di sbagliato, non devi rimproverarti di nulla”.
Arrivai davanti all’uscio di casa e accarezzai la targa che indicava la scritta con i nomi dei miei genitori, ormai scomparsi.
Salii le scale, poggiai il cappotto sul divano e rimasi seduto di fronte al balcone.
Ed è qui che mi ritrovo ancora adesso, con un cerchio alla testa poderoso e una stanchezza nell’anima che non può essere risanata.
Penso in questi momenti che è davvero finita. La vita è come una partita di monopoly ormai. Una volta che finisci a zero con il conto in banca, sei eliminato.
Mi chiedo “Cosa vuol dire essere i veri proprietari della nostra vita?
Come è possibile che un conto in banca abbia la possibilità di farci fuori per davvero?
Perché ritagliarsi un posto nella società assomiglia sempre di più al gioco della sedia, dove alla fine di sedie ce ne sono sempre meno e le persone che rimangono fuori sono sempre di più?
Perché non possiamo vivere di amore e gioia come quel violinista che mi ha incantato pochi istanti fa?
Io non so dare risposta. Semmai non sarei qua.
So solo che ho fallito miseramente ogni punto importante della mia vita”.
Mi ergo sulla ringhiera del mio balcone, lo stesso dal quale ho ammirato il panorama con le mie complici e dove ho sostenuto tante chiacchierate con Gaston, giro il mio corpo di 180 gradi, dando la schiena alla città più bella dell’Universo intero, barcollando ma godendomi il momento.
Mi lascio cadere, voltando le spalle al mondo che me le aveva voltate a sua volta, sentendo l’aria che mi passa fra le dita delle mani aperte, guardando per l’ultima volta il cielo che si allontanava sempre di più da me.
E caddi, decidendo per una volta come sarebbe dovuto andare a finire un qualcosa nella mia vita.
Per la prima volta sono stato protagonista e padrone di me stesso.
Mi chiamo Gaël, ho trentanove anni e ho finito per essere proprietario della mia vita.
Per voi, cari lettori e amici, cosa vuol dire “Essere protagonisti della vostra vita?”
Fatemelo sapere in un commento qua sotto, sono curioso di sapere cosa ne pensate!
Vi siete persi le mie storie precedenti? Nessun problema, potrete leggerle CLICCANDO QUI. Verrete reindirizzati all’indice con tutte le trame delle mie store. Buona lettura e buon appetito per la vostra mente!
Lucky
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