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Perdersi

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Sabato 22 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (414): Perdersi

Attraversare l’esperienza della perdita è duro ad ogni età. Il senso di vuoto che si prova non è mancanza dell’oggetto d’amore (soltanto). Siamo noi quel ‘vuoto’. Le cose si appannano perché il nostro sguardo è appannato. In verità, non vogliamo tenere gli occhi spalancati sul mondo, perché vedremmo solo ‘cose’, non il colore delle cose.
Se una lezione dobbiamo ricavare da questa esperienza forse è proprio in questa destituzione di senso che riguarda noi, i soggetti amorosi. Perdere un amore significa perdersi, smarrire il senso di sé, una porzione grande della propria identità.
E se esce intaccata, ferita l’identità personale, vorrà dire che aveva senso la teoria dell’amore che assegna al soggetto amoroso l’importanza più grande: nell’esperienza sentimentale a due esce accresciuta la mia identità, addirittura realizzo la mia identità, cioè rendo reale una parte di me, forse la più importante, la più grande di fronte all’altro.
L’abbandono della relazione, la separazione di fatto, la mancanza che conseguono alla rottura del legame si costituiscono come una ‘negazione’ di me, un rifiuto, un mutamento del giudizio che sorreggeva il sentimento, il venir meno del valore che mi era stato assegnato. Perciò è corretto pensare che di me si tratta, della mia identità, del mio modo di consistere e di declinarmi nel mondo.

Sotto lo sguardo dell’altro io ‘apro’ il mio cuore e lascio ‘entrare’ l’altro, che non è soggetto conoscente soltanto ma prima di tutto senziente, paziente, parlante. L’altro ‘risponderà’ a quell’apertura. Dovrà decidere che farsene della mia libertà, se legarla a sé con il legame d’amore o con lacci e catene; dovrà dare un senso ai giorni, e nelle costellazioni di senso che ne deriveranno dovrà decidere quale posto io occupi, nel ritaglio di tempo in cui mi sarà dato poi consistere.

La mia esistenza non dipende interamente dal ‘consenso’ dell’altro. Se così fosse, mi ritroverei nell’assoluta insicurezza (un capitolo importante de L’io diviso di Ronald Laing, sulla schizofrenia, non a caso è intitolato L’insicurezza ontologica). La dipendenza dall’altro, nella relazione sentimentale, è ‘fisiologica’. Essa diventa patologica quando si fa disfunzionale.
La mia esistenza non dipenderà in modo disfunzionale da quella dell’altro, se la mia fragilità e i miei limiti saranno ‘rispettati’ e se saprò custodire lo spazio interiore, difendendolo dagli ‘attacchi’ esterni, anche della persona oggetto del mio amore. Non debbo permettere che parti importanti della mia esistenza siano erose dall’insicurezza dell’altro. Se questo accade, vuol dire che da una parte o dall’altra ci sono carenze nella ‘costruzione’ dell’edificio della personalità che si riverberano sulla relazione sentimentale.

Escluso tutto ciò che è disfunzionale, patologico, non resta che considerare  lo stato di ‘sofferenza’ personale che deriva da una ‘normale’ perdita sentimentale. L’elaborazione del ‘lutto’ non è compito che si possa esaurire in un tempo breve. Dopo anni, talvolta decenni, andati in fumo, si tratta di ‘ridefinire’ il senso di quegli anni, di quei decenni. La persona amata era quella ‘giusta’ per noi? Eravamo ‘compatibili’? Era prevedibile l’esito finale? Poteva essere evitato con comportamenti più adeguati? Le infinite domande a cui sottoporremo la nostra coscienza serviranno a ‘liberare’ la coscienza stessa da quelle forze che ci legano ancora a chi non c’è più.
Al di là e oltre ogni strategia ed esercizio e ‘terapia’, però, conta saper illuminare la propria esperienza, rendendo chiare le ragioni che hanno portato a stringere una relazione come quella che è stata appena distrutta. Apprendere dall’esperienza è compito difficile, e su esso torneremo, ma di questo si tratta: di fare i conti solo con se stessi.

Quello che non possiamo fare è questo: revocare in dubbio le scelte consapevoli fatte. Amore non è cieco, anzi insegna a vedere. Amore è visionario, creativo, immaginifico… L’investimento sentimentale prodotto non può essere svilito, come se fossimo stati guidati da forze oscure! Noi abbiamo scelto proprio quella persona, con i suoi difetti ben noti a noi. Non eravamo ciechi nel momento della scelta. Non possiamo dichiararci oggi ‘desti’, come se fossimo ‘dormienti’!

Noi possiamo fare una sola cosa, con onore: accettare la lontananza, l’assenza, la mancanza, la perdita come ‘prezzi’ da pagare, per l’esito ‘negativo’ di una nostra impresa umana. L’esperienza del dolore, poi, è connaturata alla condizione umana. La vita è fatta di assenze, separazioni, perdite.  
C’è un tempo anche per il dolore. Non possiamo sottrarci al potere del tempo. Viviamo nel tempo. Siamo il tempo della nostra coscienza.
Distillare istante per istante ogni ‘colpo’ che verrà dal dolore conseguente alla perdita. Solo così potremo assegnare il giusto posto nella nostra esistenza all’esperienza sentimentale conclusa. Dal significato che sapremo dare ad essa dipenderanno le scelte che faremo ancora per dare senso alla nostra vita, intrecciando nuovi legami sentimentali.


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