Brasile, 2011
34 minuti
Nasce dall'indeteriorabile ricordo di un luogo, Permanências: un complesso residenziale sito in Belo Horizonte (una sorta di centro comunitario) che il regista di Tremor (2013) ebbe modo di visitare dieci anni prima di questo film, e che da come spiega nelle note di regia,"ha infestato la mia memoria; un fantasma che era necessario affrontare trasponendone le immagini che erano rimaste dentro di me, che erano oramai diventate parte integrante della mia anima". Un territorio insito nella memoria e che a sua volta, si pone come veicolo per la memoria, in quanto ambiente dalla rapportabile conformazione costiana (le stesse geometrie murali che disegnano il quartiere di Fontainhas, in Colossal Youth e No Quarto da Vanda; le stesse figure umane che ne infiggono gli spazi) e che Ricardo Alves Júnior aveva comunque già esplorato, intrappolandone una porzione esistenziale negli sgranati frame monocromatici del suo primo cortometraggio Material Bruto (2006). E alla stessa maniera intrappolati, bloccati in modo permanente, lo sono i soggiornanti di queste strutture, contemplati oculatamente nella più capillare delle loro (in)azioni dalla rigorosità di una camera statica che annulla qualsiasi divario tra l'osservato, e l'osservante, stabilendone così un contatto il più diretto possibile. Al momento, Permanências si presenta quindi come l'opera più radicale del giovane regista brasiliano, non c'è ancora il movimento dettato dalla camera a mano che seguiva imperterrita Elon Rabin alla ricerca della moglie scomparsa, e come nel succitato cinema di Pedro Costa, riemerge quell'inscindibile contatto tra l'uomo e l'ambiente a lui più conforme; ancora una volta, corpi, che compenetrano uno spazio delimitato. Ognuno di questi, è circoscritto nella sua personale inquadratura composta da angoli, cancelli, pareti parzialmente illuminate sulle quali si stagliano sagome atlasiane* e muri, che manifestano tutti i segni del tempo. E il tempo, in questo caso è determinante per far si che l'immagine possa raggiungere il suo più calibrato respiro (un tempo che può essere quello di una sigaretta, lavare il proprio cane o suonare un brano alla tastiera). E citando nuovamente le parole del regista, "Permanências è un film che valorizza i gesti più minimi: la vista, il respiro". Ogni residente osservato, lo è semplicemente nell'immanenza del quotidiano, ed è esemplare come Alves cerchi il possibile annullamento dal ruolo autoriale per lasciare l'osservato libero d'esprimersi nella spontaneità del gesto in quel preciso istante, esente da qualsiasi costrizione filmica. Non esiste infatti alcuna sorta di manipolazione in Permanências, e a dimostranza di ciò, resistono appunto gli ingenui sguardi rivolti verso di noi; le parole pronunciate per non dimenticare un nome ("Ricardo") o anche, solamente, l'espressione soddisfatta di chi, alla fine, ne ha simpaticamente diretto le danze musicali.
*in riferimento al capolavoro di Antoine D'Agata: la prima sequenza di Atlas, è praticamente il clone (solamente più illuminato) della prima sequenza in Permanências. Interessante il confronto.