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E' difficile cercare di recensire in maniera adeguata un film. Figuriamoci se si tratta di Ingmar Bergman. Ebbene, un tentativo vorrei farlo, partendo da questa premessa determinante: Persona è il suo primo film in assoluto che vedo. Quindi non me ne vogliate se dirò boiate. Su Bergman c'è da dire innanzitutto che è considerato l'erede cinematografico di Munch, un pittore che faceva della morte, dell'angoscia esistenziale e della ripetitività della vita borghese i suoi temi principali. Detto questo, esaminiamo il film. La trama è incentrata sulla figura di Elisabeth, interpretata da Liv Ulhman, attrice che durante una rappresentazione teatrale, si blocca e inizia inspiegabilmente a ridere. In seguito si chiude in un volontario mutismo e viene ricoverata in una clinica, dove la dottoressa decide di affiancarle un'infermiera per cercare di farla uscire da questo status e decide di mandare le due donne nella sua casa al mare per dedicarsi a un periodo di riposo e riflessione che pensa possa giovare a Elisabeth.
Bergman, da questo momento in poi, si dedica ad un incontro/scontro tra le due. Un incontro fatto di segreti confessati, di lacrime, di amore, di tradimenti, di odio, di rabbia. Arrivando poi a mescolare completamente le due personalità, giocando in maniera destabilizzante e concitata con la nostra mente. Grande ruolo ricopre il tema della maschera. La maschera che si è costretti a indossare per risultare credibili in un determinato ambito, in una determinata società. Non a caso questo è un film impregnato anche nella psicoanalisi. Jung, infatti, intendeva il termine Persona nel suo significato latino di Maschera. E' chiaro soprattutto nella parte finale, nel faccia a faccia decisivo, dove Bergman, in maniera geniale, decide di riprendere la scena due volte da entrambi i punti di vista delle due protagoniste, dando vita a una scena magica e lirica. Ingenuamente, prima di immergermi in questo film, pensavo di ritrovarmi davanti a un film fatto di poche, pochissime parole. Invece mi sbagliavo. I dialoghi ci sono eccome, c'è tempo anche per veri e propri soliloqui, fino a rendersi conto che altro non è che un continuo soliloquio visto il mutismo di Elisabeth e la grande voglia di comunicare e di sfogarsi di Alma.
Ho visto in questo film una lucidissima analisi su quanto sia fastidioso accorgersi della precarietà della vita stando a contatto con persone che non fanno altro che mostrarci la loro ipocrisia che in un determinato momento diventa anche la nostra. Due facce della stessa medaglia, della stessa incapacità di andare avanti e di staccarsi da un passato fatto di sofferenza e di scelte sofferte. Importante anche la riflessione su quanto l'odio sia parte integrante dell'uomo e su quanto si è accondiscendenti quando questo odio emerge. E' indubbio sottolineare il carattere palesemente metacinematografico del film, un carattere espresso simbolicamente (ma non troppo) nelle scene iniziali e nella scena finale con l'immagine della bobina ormai logora e infiammata. Vi consiglio caldamente di vederlo, anche perché non vorrei che poi vi troviate a dover sfidare a scacchi la Morte per lenire a questa mancanza. Scherzi a parte, godetevelo perché è un film che brucia dentro, proprio come la bobina.
Daniele Morganti
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