L’idea
Ho trentacinque anni e una Laurea in Lettere, inutile come la disoccupazione che cagiona. E durante questo tempo, sulla scrittura ne ho sentite tante, persino troppe. Una delle più fantasiose è che la scrittura è dio. O che dietro di essa ci sia un dio, o un demone… perché c’è chi si crede un Paganini della parola scritta, che danza col diavolo mentre scrive. Da qui, e da una cover di Johnny Cash, nasce il titolo del post.
Il contenuto che andrò a esporre, più che altro pareri, invece, ha una genesi un tantino più complessa, e confusa.
Due articoli, letti ieri e stamattina, qui e qui. E un discorso/proposta che affrontammo, ormai mesi fa, col Doktor Mana, in un luogo segreto della blogosfera, un discorso sul metodo. Il metodo della scrittura.
Sì, a pensarci, siamo dei super-criminali a insistere in certe cose, ma tant’è… ci si illude di sapere quello che si sta facendo, quando si digitano parole in sequenza. Io per primo.
Ebbene, non sono d’accordo.
Con cosa? Con il principio da cui scaturisce il tutto: il discorso sul metodo della scrittura.
Sono d’accordo con la grammatica, insieme di consuetudini che vanno conosciute e rispettate, se non altro perché il lettore capisca il contenuto del messaggio. Su tutto il resto, se ne può discutere. Ma anche no.
La domanda è cui prodest? A chi giova tanto parlare?
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Il Metodo
Prendiamo i ventidue punti elencati nell’articolo de La Clarina, ad opera di Emma Coats. Ora, davvero io, nell’accingermi a scrivere, devo tener presente VENTIDUE punti?
Cioè, quando ho finito di ripeterli a mente, la storia, lo spunto, la scintilla da cui scaturisce il tutto è bella che andata. E, esperienza personale, una volta spenta, l’acciarino non basta più a ravvivarla. Non è sufficiente neppure un’esplosione nucleare per resuscitarla. Diventa entropia. Che pure è una cosa che esiste, costituendo il nulla.
E, pur essendo concorde con alcuni punti elencati, soprattutto con il numero 7 e con l’11, anche se quest’ultimo lo vìolo sempre, dannato me, perdendo un sacco di tempo utile, proprio non accetto il 17. Il lavoro sprecato esiste eccome, ne siamo circondati. Io almeno lo sono. Spunti che restano tali, perché manca la volontà.
Alla fine, dopo la grammatica, è la volontà che conta. E quella latita, un po’ per autocompiacimento, indulgere nell’idea talmente tanto da evitare coscientemente di svilupparla. Un po’ perché sai che alla maggior parte della gente là fuori, che si suppone essere lettori potenziali, non frega nulla di ciò che scrivi.
Prendiamo ad esempio quest’articolo:
a) sono certo che al 40% dei lettori abituali del blog non importerà nulla di leggerlo, perché non tratta di cinema
b) il cambiamento non viene perdonato a nessuno. Io parlavo di cinema (ogni tanto ne parlo ancora), e che ora mi metta neppure sul pulpito, ma sul trespolo, a parlare di scrittura, è un cambiamento.
Ma non dimentichiamo il terzo punto, fondamentale,
c) sostanzialmente, me ne frego
Sto divagando, lo so. Ma l’ho detto all’inizio, questo è un post confuso. Sono persuaso, però, che il ruolo del lettore, sic stantibus rebus, debba essere ridimensionato. Perché ipotizzare cosa piaccia al lettore sa di indagine statistica e, a meno di non voler creare storie che nascano dai sondaggi, quel che piace all’autore non deve mai essere messo in secondo piano.
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L’autore
Veniamo all’articolo di Aislinn. La difficoltà oggettiva di scrivere alcune scene. Ecco, credevo di averla anch’io. Credevo proprio di non riuscire ad affrontare certi argomenti, certe tinte forti, certo splatter, la violenza sugli animali, sugli esseri umani. Erano temi che sentivo distanti, anche perché nella vita reale aborro ogni tipo di violenza, ma… le ho scritte e, sorpresa, mi sono trovato a mio agio facendolo.
Seconda sorpresa, sono venute da sé, tenendo presente un unico principio, l’economia della storia. Meglio sarebbe definirla armonia, ma è una roba troppo romantica, per i miei gusti. Economia, quindi. E questo principio si può riassumere, in parole povere, in questa massima: se fa bene alla storia, allora va bene.
Anche perché sono convinto di una cosa, ogni autore o aspirante tale dovrebbe essere giudice di se stesso, e sapere se ha scritto cagate prima che venga il lettore a dirglielo.
Limite mio, non concepisco quegli autori che non si rendono conto di ciò che hanno scritto. Lo trovo un concetto antitetico, un po’ come la storia dei personaggi che fanno tutto loro.
Scorciatoia, a mio avviso. L’autore fa e disfa, ha il controllo.
Se l’autore viene denunciato per i contenuti della sua opera, è lui che deve pagare i danni, mica il personaggio che “ha fatto tutto da solo”.
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Il mio Metodo
Per cui, passiamo alla risposta che dovevo a Davide, circa il mio metodo di scrittura. Prendetelo così come viene, un vaneggiamento, ché non mi sento proprio di dispensare consigli di scrittura, perché non sono affatto persuaso della loro utilità.
Dunque, parto da una suggestione:
di solito, una canzone, una melodia che mi colpisce ed evoca immagini.
Queste immagini sono situazioni, scene.
Intorno a questa scena imbastisco una storia.
La scrivo avendo ben presente tre o più elementi, incipit, almeno un dettaglio del corpo centrale, excipit.
Durante la stesura, applico i cambiamenti che vengono sul momento e la cosiddetta decorazione, ovvero ci aggiungo ogni sorta di dettagli che mi vengono in mente, perché vedo ciò che scrivo, come fossi lì.
Arrivati al punto dopo l’ultima parola, so già se la storia funziona o no. Se funziona la faccio leggere ad altri, al massimo temendo che possa non essere capita.
Nel caso arrivi qualcun altro a dirmi che invece no, proprio non va, allora se ne può discutere. Ma finora non è successo. Forse, sono stato fortunato, o forse so quello che sto facendo. Chissà…
Di sicuro, mi diverto a scrivere. Banale, ma essenziale.
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L’obiettivo
Mi piacerebbe, da scrittore, straziare i cuori con le mie storie, ovvero far nascere i lacrimoni in quelli che leggono. È un’ossessione, la mia, un’ambizione. E lo so, le lacrime sono soggettive e bla bla bla, il valore di un’opera si fonda non sulla quantità di lacrime che essa fa versare; un capolavoro, al contrario, può anche far ridere… ma secondo me, sono tutte storie. I lacrimoni piacciono eccome.
E, forse perché nella vita sono uno che non cede ai sentimenti, non riesco né mi piace produrli sulla carta. Se è vero che, almeno nei protagonisti delle nostre storie, c’è un pochino di noi stessi, gli autori, allora è anche vero che i miei protagonisti non si arrendono mai, non ai nemici, non al fato, accettano le disgrazie e l’apocalisse, la morte persino, quando ineluttabile, con rabbia, più che con stoicismo o disperazione.
Io posso avere il pieno controllo sulla storia, ma non sulla vita. Una legge che ho imparato a mie spese. Le cose cambiano, e quando precipitano, i piagnistei non aiutano. Mai.
Per cui, questo mio protendere verso la soluzione energica del conflitto, verso l’abbattimento di ogni ostacolo o la reciproca distruzione, mal si sposa con lo strazio romantico.
Lascerò che i lacrimoni siano la meta impossibile dei miei scritti. Se e quando li raggiungerò, in modo spontaneo, saprò di essere maturato come autore, secondo un processo che è personale, in ciascuno di noi, regolette a parte.
Forse, alla fine, Personal Jesus è un titolo più azzeccato di quanto io stesso sia disposto a credere…
(le immagini provengono dal mio tumblr)