Perú, cronache di un Mundial visto alla tivù

Creato il 04 luglio 2014 da Eldorado

Il Perù al Mondiale non c’è. Manca da trentadue anni, da un pomeriggio triste a La Coruña, che si concluse con una goleada che fu preambolo di questo digiuno vissuto da allora con atavico fatalismo.

Quell’ultima partita in una fase finale il Perù la perse per 5-1, quando si giocava la qualificazione con la Polonia nel girone che promosse invece la sbiadita Italia di Bearzot, che si trasformò poi nello squadrone che vinse il titolo. La nostalgia, in questi giorni di euforia planetaria, è palese. Per le strade di Lima abbondano i televisori, i richiami pubblicitari alla più grande manifestazione dell’anno, i commenti ad ogni angolo di strada. Ristoranti e luoghi pubblici si trasformano in piccole arene ogni qualvolta si giochi una partita, con gli avventori che partecipano appoggiando l’una o l’altra squadra. I favori –se si esclude il naturale rivale Cile- vanno alle latinoamericane. Il telecronista si accende ogni qualvolta, nelle tribune degli spalti brasiliani, vede ondeggiare la bandiera peruviana. Ci siamo anche noi strilla, ma il suo commento invece di appiccare il fuoco patrio, fa tenerezza. Il Perù calcistico, quello mundialista, si è perso a La Coruña sotto i gol di Lato e Boniek e non si è più ritrovato. Nell’86, in Messico e nel ’90 in Italia il paese era sotto la minaccia senderista e quando è stato il momento di rifondare il movimento non si sono più trovati i talenti. I Cubillas e i Lolo Fernández sono figure che appaiono ormai solo nelle fotografie sbiadite di un passato glorioso, presenti nelle storie che i padri tramandano ai figli, ma con nessuna incidenza sul presente. La camiseta pesa sulle spalle gracili delle nuove leve calcistiche.

Perché poi il peruviano è forse il meno nazionalista di tutti i latinoamericani. La bandiera è la stessa, ma di Perù ce ne sono almeno tre: quello capitalino, quello della sierra e quello che si affaccia sul grande bacino amazzonico. Tre Perù che non si sono mai capiti per secoli e che hanno creato tra loro grandi divisioni che anche in epoca recente hanno generato immani tragedie. Il potere dei forti contro i deboli, il risentimento razziale, la povertà ancestrale avevano trascinato il paese in un baratro. Poi, piano piano, la risalita, cominciata con l’intenzione di rafforzare il sentimento di nazione.

Il marchio Perù, stilizzato seguendo i disegni dei geoglifi di Nazca, è sorto tre anni fa e da allora si è moltiplicato ovunque, con un battage pubblicitario degno, appunto, di una finale di coppa del mondo di calcio. Il messaggio è chiaro: il Perù è uno solo e tutti siamo il Perù. Attenti anche al linguaggio. Cholo, sambo, negro, ogni termine ritenuto offensivo deve sparire.

-Ma non siamo pronti-. La voce del popolo è quella dei tassisti che ti portano in giro in un traffico improponibile in una metropoli di dieci milioni di abitanti, immersa nell’umidità e nello smog, dove puoi ritenerti fortunato se riesci a vedere il sole fare un timido capolino nella cappa ammorbante.

-Siamo corrotti, immaturi, e, soprattutto non rispettiamo niente e nessuno-

Come i calciatori.

-Sa perché non andiamo al Mondiale da trentadue anni? Perché ci manca disciplina. Il giocatore peruviano appena arriva a giocare nella Primera División, si crede un fuoriclasse. Pensa ai soldi, alle auto sportive e alle donne. E non pensa più a giocare-. La conferma? Gli assi della nazionale che fanno mattina con donne e alcol dopo aver pareggiato con il Brasile in Coppa America. Due giorni dopo l’impresa, ne prendono cinque dall’Ecuador…

Pinto, l’attuale allenatore della rivelazione Costa Rica, ha lavorato qui. Due anni e due titoli con l’Alianza Lima. Grandi risultati, quindi, ma se ne andò per la disperazione. Tutti i fine settimana doveva fare il giro delle discoteche per raccogliere i giocatori, sfatti dopo ore di baldoria. Se Lima è triste nel suo spettacolo invernale di cielo grigio ed inquinamento, lo è ancora di più per i tifosi che devono guardare per televisione uno spettacolo che non gli appartiene. Gli altri fanno festa e loro devono inventarsi di volta in volta una squadra alla quale affezionarsi per novanta minuti. Tra due anni si riparte con le eliminatorie. Sperare, almeno, non costa niente.


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