L’intero armamentario è sistemato sul letto: un paio di sneakers nuove di zecca, una tuta strisciata sui fianchi, una giacca a vento col cappuccio aerodinamico in tinta, l’Ipod carico di playlist confezionate per l’abbisogna. E ancora i guanti di lana tagliati sulle dita. Persino una coppia di polsini spugnosi modello Bjorn Borg.
Archiviato il funesto 2012 tra mille scongiuri, apro al futuro attrezzando la mia prima, decisiva sessione di jogging.
Colpa del mio medico. Stufo marcio di vedermi trascinare periodicamente nel suo studio col volto paonazzo e gli occhi pallati: «inutile sottoporsi ancora a quintalate d’esami. Lei è sano come un pesce», mi fa. «Il suo problema è lo stress: si trovi uno sfiatatoio per il surplus di adrenalina o saremo costretti a ricorrere agli psicofarmaci».
Dopo anni di volontaria dedizione all’atrofia, al giro di boa dei quaranta inverni mi ritrovo così costretto a diventare uno sportivo. Sei chilometri di corsa. Un giorno sì e uno no. Al crepuscolo, per godersi il tramonto calettante del Sud. Sgambando felice sull’unica corsia ciclabile del posto in cui vivo. Sperando di ritrovare se stessi. E di gabbare lo stress e l’industria farmaceutica.
Mi accingo quindi al rito della vestizione con marziale raccoglimento, inspirando ritmico l’aria prima di liberarmi dell’accappatoio. Tensione e phatos sono alle stelle. Sono un Dio greco pronto a morire in battaglia. Sono il veterano John Rambo che si barda per il suo personale Ragnarök.
Ho appena infilato i calzoni della tuta quando l’Inesplicabile si manifesta: i pixel di un televisorino perennemente acceso in un angolo della stanza mettono a fuoco come per incanto la figura morbida di una biondona alloggiata dietro la cassa d’un bar. È una giovanissima Mara Venier. E nei suoi occhi sembra rilucere tutta l’ingenua illusione d’immortalità con cui gli anni ’80 stordirono la mia generazione condannandola al nichilismo perpetuo.
La rete è un’ignota emittente di provincia. Il film lo conosco a memoria, è Al bar dello sport, di Francesco Massaro. Lino Banfi - il miglior Banfi, quello ribaldo e ipercinetico, capace di “spezzare la noce del capocollo” in un tripudio di rutti e bestemmie in barese - v’impersona uno squattrinato emigrante pugliese in una Torino cupa e lunare, ospite sgradito del cognato sabaudo. Frequenta assiduamente il bar eponimo assieme a una serqua di buzzurri sudisti facendo il filo alla cassiera (appunto, la Venier) e sognando di diventare un giorno ricco come Agnelli (l’avvochèto).
Mollo tutto per approssimarmi allo schermo, come in trance. Catturato dalla linearità estrema di un plot destinato a un pubblico di deficienti, ma scritto da Dio.
[continua sulla rivista]
Magazine Cultura
L’intero armamentario è sistemato sul letto: un paio di sneakers nuove di zecca, una tuta strisciata sui fianchi, una giacca a vento col cappuccio aerodinamico in tinta, l’Ipod carico di playlist confezionate per l’abbisogna. E ancora i guanti di lana tagliati sulle dita. Persino una coppia di polsini spugnosi modello Bjorn Borg.
Archiviato il funesto 2012 tra mille scongiuri, apro al futuro attrezzando la mia prima, decisiva sessione di jogging.
Colpa del mio medico. Stufo marcio di vedermi trascinare periodicamente nel suo studio col volto paonazzo e gli occhi pallati: «inutile sottoporsi ancora a quintalate d’esami. Lei è sano come un pesce», mi fa. «Il suo problema è lo stress: si trovi uno sfiatatoio per il surplus di adrenalina o saremo costretti a ricorrere agli psicofarmaci».
Dopo anni di volontaria dedizione all’atrofia, al giro di boa dei quaranta inverni mi ritrovo così costretto a diventare uno sportivo. Sei chilometri di corsa. Un giorno sì e uno no. Al crepuscolo, per godersi il tramonto calettante del Sud. Sgambando felice sull’unica corsia ciclabile del posto in cui vivo. Sperando di ritrovare se stessi. E di gabbare lo stress e l’industria farmaceutica.
Mi accingo quindi al rito della vestizione con marziale raccoglimento, inspirando ritmico l’aria prima di liberarmi dell’accappatoio. Tensione e phatos sono alle stelle. Sono un Dio greco pronto a morire in battaglia. Sono il veterano John Rambo che si barda per il suo personale Ragnarök.
Ho appena infilato i calzoni della tuta quando l’Inesplicabile si manifesta: i pixel di un televisorino perennemente acceso in un angolo della stanza mettono a fuoco come per incanto la figura morbida di una biondona alloggiata dietro la cassa d’un bar. È una giovanissima Mara Venier. E nei suoi occhi sembra rilucere tutta l’ingenua illusione d’immortalità con cui gli anni ’80 stordirono la mia generazione condannandola al nichilismo perpetuo.
La rete è un’ignota emittente di provincia. Il film lo conosco a memoria, è Al bar dello sport, di Francesco Massaro. Lino Banfi - il miglior Banfi, quello ribaldo e ipercinetico, capace di “spezzare la noce del capocollo” in un tripudio di rutti e bestemmie in barese - v’impersona uno squattrinato emigrante pugliese in una Torino cupa e lunare, ospite sgradito del cognato sabaudo. Frequenta assiduamente il bar eponimo assieme a una serqua di buzzurri sudisti facendo il filo alla cassiera (appunto, la Venier) e sognando di diventare un giorno ricco come Agnelli (l’avvochèto).
Mollo tutto per approssimarmi allo schermo, come in trance. Catturato dalla linearità estrema di un plot destinato a un pubblico di deficienti, ma scritto da Dio.
[continua sulla rivista]
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