Che la scienza sia qualcosa di complesso e di non semplicemente riducibile al metodo e ai suoi relativi protocolli è tema di infinite discussioni epistemologiche. Che non sia una torre di avorio rispetto alla società, una sorta di spazio neutrale della conoscenza non toccato e intaccato dagli interessi, dalle pulsioni e dal potere è persino scontato. Esplorare tutto questo è complicato, ma diventa banale quando il prestigio della scienza e delle sue pubblicazioni viene volgarmente utilizzato per condizionare le opinioni pubbliche e favorire la nascita di impressioni errate.
Su Scientific American ( e prontamente ripreso da Le Scienze) è apparso un articolo dal titolo “Solo la Cina può salvare gli oceani” che in apparenza potrebbe apparire come un riconoscimento dell’importanza assunta dall’ex celeste impero, ma che in realtà mette questo immenso Paese sotto accusa per la devastazione del vita marina. La cosa nasce del fatto che mentre gli Usa consumano 7,5 milioni di tonnellate di pesce l’anno e il Giappone (pur con una popolazione di un terzo inferiore) 7,2 milioni, la Cina ne consuma 50 milioni. Troppo per le risorse ormai depauperate dei mari: se gli abitanti del Paese di mezzo si limitassero a consumare pesce quanto gli americani, dovrebbero consumarne “soltanto” 30 milioni di tonnellate. Se ne consumassero come i giapponesi ne mangerebbero 72 milioni di tonnellate, ma questo è un particolare secondario: mica vogliamo mettere sotto accusa il principale alleato americano nel Pacifico. No queste cose non si fanno.
Stringendo il clou della tesi è che la Cina e i suoi pescherecci accusati di agire spesso contro le regole internazionali sono colpevoli della devastazione oceanica, della sottrazione di cibo agli altri, il che la addita come nemico globale. Solo andando avanti a leggere si apprende che il 70% del consumo di pesce cinese è dato dagli allevamenti fluviali per i quali sono state sviluppate nuove e avanzate tecniche sulla base di quelle tradizionali che, a differenza di quanto accade normalmente nell’acquacoltura occidentale, non si basano sull’utilizzo di pesce meno pregiato per produrre quello commercialmente più redditizio, ma essenzialmente su alghe e fitoplancton. Dunque il prelievo cinese dall’oceano ammonta in realtà a 15 milioni di tonnellate ( di cui almeno quattro milioni sotto forma di surgelati esportati in altri Paesi, Usa in testa), vale a dire meno della metà (tenendo conto della popolazione) degli americani, cinque volte in meno dei Giapponesi e un terzo meno della Ue che non è nemmeno presa in considerazione nell’articolo, sebbene venga subito dopo il Giappone quanto a consumo globale di fauna ittica pro capite.
Dunque prima si lancia un accusatorio allarme sulla base di dati aggiustati ad hoc, poi si ridimensiona la situazione per infine lanciare un nuovo allarme: se le classi medie cinesi rinunciassero ai tradizionali pesci di fiume e si volgessero agli oceani sarebbe un disastro. Nemmeno per un istante si prende in considerazione l’idea che altri possano e debbano regolare i propri consumi e le proprie produzioni: solo sui nuovi arrivati, ad oceani già compromessi, pesa tutto l’onere. Visto che siamo riusciti nell’intento di distruggere il mediterraneo, una volta uno dei più pescosi mari del mondo, non credo che possiamo dare lezioni a nessuno.
La cosa più inquietante però è che l’articolo non è stato probabilmente costruito ad arte per fornire impressioni e conclusioni errate, esso è invece uno spontaneo e onesto prodotto di una cultura e di una mentalità che ormai in automatico rifiuta ogni responsabilità e che vede nella crescita dei consumi al di fuori della ristretta cerchia occidentale, un pericolo per i propri considerati intoccabili e assoluti. L’incapacità di mettersi nei panni altrui o l’incapacità di vedere come la devastazione del pianeta nasca dall’assolutizzazione del mercato, è proprio ciò che ci porterà al disastro.