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Peste, morte, donne: "maraviglioso boccaccio" tra cinema e letteratura
Creato il 23 marzo 2015 da VeripaccheriQuesto non è il primo “esperimento” cinematografico sul grande capolavoro di Boccaccio. Pierpaolo Pasolini, ben quarantaquattro anni fa, aveva deciso di portare sul grande schermo la “Commedia umana”, con un altissimo grado di rielaborazione, tanto da far sembrare il “Decameron” opera sua.
Tuttavia la lettura del libro stavolta è ben diversa, molto più aderente al suo significato e struttura originari e allo stesso tempo più vicina ai nuovi studi critici sull’opera trecentesca.
Pasolini scelse dieci delle cento novelle di Boccaccio; Paolo e Vittorio Taviani hanno scelto di non iniziare con una novella ma con la cosiddetta “cornice”.
Può sembrare una scelta dovuta soltanto alla volontà di rimanere più aderenti al testo boccacciano, ma dietro questa scelta c’è molto di più…La “cornice” permette di comprendere il vero e più profondo significato del film quanto del “Decameron”.
I primi fotogrammi mostrano la Firenze del 1348. Spazio e tempo sono ben determinati nel film come nell’opera letteraria, secondo quell’istanza di realismo che tutti conosciamo appartenere al Boccaccio del “Decameron”. Il film ci fa entrare fin da subito in uno scenario tanto apocalittico quanto realistico e reale (l’ “orrido cominciamento”): una donna sul suo letto di morte è ricoperta dai “bubboni” della peste, i familiari le stanno a distanza per paura del contagio e se ne vanno poco dopo. Questa scena sembra tratta da ciò che un cronista dell’epoca, Marchionne di Coppo Stefani in “Cronaca fiorentina”, racconta: “…moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame, imperocché come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli dicevano: "Io vo per lo medico" e serravano pienamente l’uscio da via e non vi tornavano più.”
Un’altra scena emblematica del film mostra un uomo che segue il cadavere della sua donna fino alle fosse comuni, gettandosi nella fossa con lei. A quel punto coloro che sono incaricati di ricoprire di terra i corpi degli appestati, nonostante vedano che nella fossa c’è un uomo vivo, che piange l’amata, continuano meccanicamente a gettare terra anche su di lui.
E’ chiaro che i Taviani, come Boccaccio, ci vogliono mostrare una società che non è più società in quanto non esiste più il “vivere insieme”; una società senza più regole, sentimenti di altruismo, dominata dalla paura e dalla morte: sentimenti che portano all’egoismo più puro, per istinto di sopravvivenza. Nel film vediamo che la violenza e l’odio sono presenti anche fra i più giovani: dei bambini litigano per accaparrarsi delle mele e finiscono per tirarsi dei sassi.
E’ proprio questo sovvertimento delle leggi naturali e del quotidiano fluire della vita che muove un gruppo di sette donne a maturare l’idea di abbandonare la città di Firenze per trasferirsi nella campagna circostante e di costituire una “microsocietà”, un vivere comune seppur su piccola scala.
Qua sta l’altro punto focale del film e dell’opera boccacciana: le donne.
A loro, nel “Proemio”, l’autore dedica il suo libro, poiché possano vincere la “noia” ascoltando “nuovi ragionamenti”, e forse non è un caso che le prime inquadrature del film ritraggano personaggi femminili: giovani donne morte di peste.
Nel film è molto chiaro quanto siano le donne a prendere le decisioni più importanti, a fare i ragionamenti più profondi, a porsi domande sul Male e su come sia “giusto” rapportarsi con esso. Gli uomini giungono dopo: i tre giovani accettano di fuggire con le loro donne, accettano quel che le donne hanno già deliberato fra loro. E sarà questa decisione a salvarli.
Appena giunti in un casale della campagna fiorentina è sempre una delle donne della “lieta brigata” a pronunciare una frase che nell’economia del film e dell’opera ha un peso notevole: “Se vogliamo stare qui dobbiamo darci delle regole”. Lontano da una Firenze “impazzita”, i giovani sono adesso in mezzo al nulla. Dovranno scandire i tempi della giornata e lo faranno, altra decisione presa dalle fanciulle, raccontandosi delle storie.
La funzione delle “novelle o favole o parabole o istorie”, come dice Boccaccio, o meglio le funzioni, sono un argomento troppo vasto per essere trattato qua, ma quando ho detto che nella cornice risiede la chiave per capire l’ultimo messaggio del testo, mi riferivo proprio a questo: in una società “morta” si può far rinascere dalle ceneri una società nuova grazie a nuove regole, in questo caso alla parola, al raccontare.
La parola è vita (pensiamo alla cornice delle “Mille e una notte”). L’opera sembra così diventare un raccontare del raccontare, un gioco di specchi su più livelli, fino a che i diversi piani della narrazione si confondono. Questo è stato colto magistralmente dai fratelli Taviani, che durante la novella di Tancredi e Ghismunda, la protagonista della novella, interpretata da Kasia Smutniak, finisce per prendere il posto di Fiammetta e racconta lei, accanto alle giovani della brigata, la sua morte.
Nel “Decameron”, come nel film, si capisce che la realtà si crea e si modifica con la parola, che non tutti sono in grado di padroneggiare, ma che “oratores” si è per ingegno personale. Ormai, ci vuol dire Boccaccio, la nuova società che andrà a costituirsi dopo il 1348 non sarà più guidata dai “bellatores” medievali, classe nobiliare per diritto di nascita, ma da individui che emergono per capacità personali, prima fra tutte quella della parola.
La via del raccontare si pone come via mediana, come “aurea mediocritas”, fra due atteggiamenti all’epoca della peste dominanti e contrapposti: quello autolesionista dei ferventi cristiani e quello edonistico. Il piacere è presente all’interno delle giornate trascorse dalla “brigata” in campagna, ma sempre regolato: è uno dei tre giovani nel film a suggerire che il piacere sessuale sia per il momento bandito, per non destare invidie fra i dieci compagni. Tuttavia l’amore è sempre presente, declinato in tutti i suoi aspetti, sia nella “cornice” che nelle novelle. Ed è proprio in una delle novelle raccontate dai fratelli Taviani che il sesso viene presentato nel suo aspetto più terreno, ma non per questo basso. La novella è la seconda della nona giornata: “Una badessa riprende una consorella ma è a sua volta ripresa per il medesimo peccato”. Nonostante la veste comica, forse fin troppo calcata per la recitazione di Paola Cortellesi nel ruolo della badessa, a quest’ultima è affidato un sermone finale, recitato di fronte alle sorelle, che nel libro viene riportato solo indirettamente, ma che i fratelli Taviani hanno creato in forma diretta. Il sermone afferma, di fronte all’evidenza, quello che Boccaccio pensa delle donne, cioè che esse sono creature “naturali” : “conchiudendo venne impossibile essere il potersi agli stimoli della carne difendere”.
E proprio nel segno del raccontare sembra chiudersi la vicenda: i giorni previsti per “novellare” sono finiti. Nel film dei Taviani i giovani sono distesi sul prato e sentono il rumore delle campanelle di un carro che probabilmente stava portando cadaveri di appestati…Nonostante il raccontare sia un’evasione, questa deve avere un termine, e questo è noto a tutta la brigata. I giovani dicono che la bella stagione sta per finire e infatti durante la notte una pioggia torrenziale si abbatte sulla campagna fiorentina. I dieci ragazzi decidono di tornare a Firenze il giorno dopo. E’ questo finale, forse inaspettato, che ci fa capire che il raccontare è un mezzo per migliorarsi, per conoscere la realtà in tutti i suoi aspetti, ma che dopo aver affrontato e portato a termine questo percorso si deve tornare alla realtà quotidiana, anche nel caso in cui questo implichi la morte, una morte in questo caso “lieta” perché avvenuta dopo l’assoluto perfezionamento di se stessi sotto l’egida del realismo.
Flavia Guidi
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