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Peter pasquer come back!

Creato il 10 dicembre 2009 da Peterpasquer
Sì, in effetti mi sono presa una bella vacanza dal mio blog… Altri impegni, altre priorità. E poi anche una questione di salute. Mi sono assentato, ma di certo non sono stato senza cinema, senza letture, senza pensamenti e ripensamenti critici su e giù per la rete, su e giù tra le maglie di questo nostro caro amatissimo Bel Paese. Ho scritto. Pure tanto. Storie, sceneggiature, progetti. Solo a casa. Tra il caldo estivo e il freddo delle attese. Nella speranza che, prima o poi, almeno uno dei tanti sogni così felicemente partoriti, cresca e cammini, portandomi ancora – utilmente – lontano dai miei impegni di blogger…

Ma veniamo al sodo. Visto che ci tengo ad esprimere il mio punto di vista (contestabilissimo…) su quello che cinematograficamente ho deglutito in questi ultimi mesi, propongo alla pazienza di chi leggerà, una carrellata di recensioni con tanto di voto. Per riprendere da dove avevo lasciato…

PETER PASQUER COME BACK!
“PARNASSUS” di Terry Gilliam

Penso che su Gilliam siamo d’accordo tutti: è pazzo. Nel bene e nel male, ovvio. Uno dei pochi (con lui metto David Lynch, David Cronenberg ma anche Manoel De Oliveira e certo Shinya Tsukamoto, certo Takashi Miike…) che credono ancora nella meraviglia del linguaggio cinematografico. Sì perché “Parnassus” è innanzitutto goduria per gli occhi e sberleffo per la narrazione canonicamente intesa. Una matrioska indiavolata, una fuga oltre lo specchio che non garantisce ritorno. Geniale l’idea di supplire alla mancanza di Heath Ledger con un comparto di amici perfetti nel servire la causa: Johnny Depp, Jude Law e specialmente Colin Farrell, il cui smarrimento non si capisce se sia voluto o dovuto. Sì, il film ha numerose pecche nella parte centrale laddove sembra contorcersi su se stesso, mancare l’obiettivo (dove mi stai portando caro Terry?) ma ci regala ugualmente momenti di grande cinema. Immagini che, ora con l’aiuto del digitale ora con la semplicità del buon artigianato, fanno respirare i nostri occhi spingendoli a guardare oltre, altrove. Sbugiardando costantemente un racconto che, guardandosi allo specchio, nega se stesso.

(7)

“BASTARDI SENZA GLORIA” di Quentin Tarantino

PETER PASQUER COME BACK!

Lo dico subito. “Bastardi senza gloria” è un bel film ricco di momenti memorabili e, sebbene l’eccessiva durata, non stanca e non delude gli irriducibili seguaci di Quentin Tarantino. Da qui a dire che trattasi di un capolavoro però ce ne passa… 

Le scene sono tutte fatte apposta per mostrare l’estro creativo di Tarantino rispetto alla scrittura dei dialoghi. Divertenti sì ma, spesso, poco utili alla storia in sé. Si ride, lo ribadisco, ma solo per il piacere di dire: “Si vede che è proprio un film di Tarantino!” Siamo lontani dal rivoluzionario (soprattutto in termini di linguaggio) “Pulp fiction”, siamo distanti dall’empatia provata per i personaggi de  “Le Iene”, siamo altrove rispetto alla compattezza giocosa e affascinante di “Jackie Brown” …ma siccome sono un fautore del concetto secondo cui non è cosa buona e giusta parlare dell’attuale tracciando sempre un confronto col glorioso passato, mi limiterò solo al presente.

In “Bastardi senza gloria”, cosa che a Tarantino riesce molto meglio che ad altri cineasti, molti dei personaggi ci vengono presentati con l’evidenziatore a portata di macchina da presa. Difficilmente però ci viene poi mostrata la vera ragione. Alcuni di essi sembrano solo piccole deliziose parentesi dal gusto squisitamente cinefilo senza un vero e proprio sviluppo utile ai fini della storia. Tutta la parte pre-taverna, quella con Mike Myers per intenderci, è pressoché ridondante. Andava snellita, ridotta. Le scene col Fuhrer sono al limite della macchietta, i nazisti tutti solo mere caricature. Provate a (ri)vedervi “Vogliamo vivere” (“To be or not to be”) di Ernst Lubitsch per capire cosa vuol dire parodia dissacratoria.

Anche la storia di Shoshanna difetta. E’ troppo prevedibile. Da quando scappa (con alle spalle il monito del nazista “Tanto ci rivedremo…”) fino alla scelta finale (il suo piano è francamente telefonato). Chiaro che incarni il sentimento di vendetta (come già in “Kill Bill”), chiaro che il fatto di essere ebrea ecciti ancor più la voglia di vederla compire quel gesto ma forse ci sarebbe voluta una narrazione meno lineare o priva di lungaggini (la conversazione col nazista davanti al dolce di panna…), scevra da certi ricatti morali (è fidanzata con un uomo di colore…) Certo, devo ammetterlo, la parte del film che più mi ha colpito ha proprio il suo personaggio per protagonista. Mi riferisco a quella in cui lei, vestita di rosso, aspetta con calma e freddezza il compimento della sua vendetta nella piccola sala di proiezione del proprio cinema. Una sequenza davvero memorabile da un punto di vista visivo e sonoro. Il resto? Già visto. La scena della taverna, ad esempio, con l’ennesima variante sulle pistole incrociate. Lunga e cattedratica. Ancora dialoghi su dialoghi. Autocompiacimento a discapito della storia. E poi… Va bene l’amore per Sergio Leone, va bene il voler portare su un altro livello di qualità i “Bastardi senza gloria” di Castellani, va bene usare Antonio Margheriti come finto nome per uno dei personaggi (un colonnello mi pare si chiamasse addirittura Ed Fenech…) ma, domando, vale la pena fare ancora leva su certi gusti o elementi biografici? E’ come se si cercasse una giustificazione al film fuori dal film stesso. E basta con ‘sto postmodernismo!

La stessa suddivisione in capitoli mi lascia perplesso. Sono quasi dei compartimenti stagni che forse avrebbero servito più la causa se Tarantino li avesse sovrapposti, intersecati.

E ancora… L’interpretazione tanto osannata di Brad Pitt. Basta davvero giocare di mandibola per gridare all’Oscar? Non dico che non fosse in parte ma tra lui e Cristoph Waltz (il Caetano Veloso delle SS…) c’è una disparità abissale. E’ quest’ultimo il vero protagonista del film.

E infine… La battuta finale dello stesso Pitt con tanto di sguardo in macchina: “Credo che questo sia il mio capolavoro!” Chiaro messaggio (irriverente, guascone, autoironico) del regista per bocca di un personaggio. Roba da strappare applausi ai fan sfegatati di Tarantino ma che, tuttavia, ha nella sua presunta sfrontatezza l’ammissione di una debolezza, un voler rimarcare l’evidente imponenza della sua ultima opera schiacciando l’occhio al tarantiniano in poltrona. Imponenza che si fa supponenza, perché questa sarà pure la Seconda Guerra Mondiale secondo Quentin, la sua spietata parodia, il suo personale vaffanculo alla Storia, una giostra sulla quale salire solo per il piacere del divertimento ma – siamo onesti – è solo un bel film da vedere e rivedere. Come tanti gustosi non capolavori. Che c’è di male?

P.S.

Ho visto il film in originale. Il lavoro fatto sull’uso delle diverse lingue (francese, tedesco, inglese, italiano) è lodevole. Nell’edizione doppiata, la breve scena recitata in italiano, perde tantissimo in efficacia e brillantezza. Si è scelto infatti di doppiarla in siciliano (chissà perché?) scadendo sul banale. Quando capiremo che almeno certi film andrebbero sottotitolati?

(7)

PETER PASQUER COME BACK!
“BAARIA” di Giuseppe Tornatore

Due ore e passa di polpettone dalla trama slabbrata. Una sequela di scene, nemmeno fosse un film a episodi, che non portano avanti la storia. Al massimo strappano qualche risata tanto per distogliere l’attenzione del pubblico da ciò che manca. Le vicende del protagonista non catturano, non hanno mordente. Una carrellata di personaggi che sembrano essere lì solo per timbrare il cartellino. E le musiche di Morricone a dare pathos… Gli spettacolari movimenti di macchina a dare senso e respiro ad un cinema poco assennato e molto affannato che, a quanto pare, piace parecchio a chi di cinema capisce davvero poco. A chi applaude alla sua candidatura per i prossimi Oscar 2010. Berlusconi compreso.

(4)

PETER PASQUER COME BACK!
“ANGELI E DEMONI” di Ron Howard

Ce l’hanno strombazzato, per almeno un anno, come il “film evento del 2009”. Dall’autore de “Il codice Da Vinci” eccovi “Angeli e demoni”… Il Vaticano già trema. I cattolici si rivoltano… Ma per favore! Un film pressoché inutile, dove vige la regola da “Settimana enigmistica”, unisci i punti e scopri di che si tratta. Di che si tratta? Di una furbata annunciata. Dov’è la suspense? Dov’è la sospensione dell’incredulità? Dov’è la storia? Insomma, dov’è il cinema?

In “Angeli e demoni” c’è il giro di Roma in ventiquattrore, da chiesa a monumento, da monumento a fontana, da fontana a sotterranei e da sotterranei a chiesa. Qualsiasi dettaglio indica una via, “la via”. Scena ipotetica con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale: “Osserva lo sguardo di quella statua, sembra dirci qualcosa! E poi la sua mano… Indica di là, andiamo…” Tutto così! In modo frenetico, goffo, con sgommate e inseguimenti da fiction di terz’ordine e prepotente pathos suggerito dall’impetuosa colonna sonora. Dialoghi da parodia del genere (Favino sembrava lì per caso…) e regia invisibile… Chiaramente, nel senso deteriore del termine. Ron Howard, d’accordo, non è mai stato un autore. Qui però si supera. Scompare del tutto. Non c’è… Dov’è finito per  tutta la durata delle riprese? Chissà, forse era completamente assorbito dalla lettura de “Il simbolo perduto”, il nuovo best-seller di Dan Brown. Chissà magari meditava di comprarne i diritti e dirigerlo in seguito. Dio ce ne scansi e liberi…

(3)

PETER PASQUER COME BACK!
“DRAG ME TO HELL” di Sam Raimi

Si ride, ci si schifa e ogni tanto si sussulta. Sam Raimi, tornando all’horror, sembra non essersi dimenticato del ragazzo che fu. In “Drag me to hell”, a farla da padrona sono la smaccata passione per il fumetto, la creatività sul piano visivo e la propensione verso uno humor sopra le righe, ai limiti dello sberleffo del genere in sé. Il film è una sorta di Luna Park dell’horror  i cui momenti migliori sono soprattutto nella prima parte, più ricca di suspense e mistero per via una messinscena studiatissima (la scoperta dell’anatema contro la giovane protagonista e le conseguenze successive…) ma soprattutto grazie all’ingresso, nel panorama horror mondiale, di uno dei personaggi più orridi e vomitevoli (in senso ovviamente positivo…) di tutti i tempi: l’orrenda e catarrosa Signora Ganush, una vecchia zingara mezza cieca con la quale nessuno di noi si sognerebbe di condividere nemmeno uno scambio di sms. Roba da disgustare persino quei buontemponi di Freddy Kruger e Michael Myers. Più prevedibile e povera di vere e proprie svolte è invece tutta la seconda parte del film. Tutta la tensione sviluppata fin qui comincia man mano a scemare, complice una sceneggiatura dai dialoghi poco incisivi, appesantita da personaggi non sviluppati a dovere (su tutti i genitori del ragazzo…) e troppo attenta al ritmo, allo stupore del pubblico in sala, anziché al senso generale, all’evocazione della paura. Gli effetti speciali non sempre convincono (si pensi alla scena della seduta spiritica), così come la scelta dell’algida protagonista, Alison Lohman, carina sì ma poco empatica. E poi il finale… Prevedibile. Suggerito così in anticipo da giungere allo spettatore come una pietanza intiepidita …riscaldata a livelli infernali solo dall’ultima, bellissima, inquadratura.

(6/7)

“IL MIO VICINO TOTORO” di Hayao Miyazaki

PETER PASQUER COME BACK!

L’infanzia, ovvero l’unico momento della nostra esistenza in cui tutto appare possibile, veramente magico. Sarà banale l’affermazione ma non è banale il modo con il quale Miyazaki ne mette in scena il senso. “Il mio vicino Totoro” arriva nelle nostre sale circa vent’anni dopo la sua uscita e stupisce, emoziona molto più rispetto a tanti prodotti freschissimi targati Disney o Pixar. E’ una favola delle meraviglie, scritta pensando ai più piccoli ma densa di spunti per i più grandi. Un’opera universale, direi. Una di quelle che vorresti trovassero gli alieni quando, nella malaugurata ipotesi di una distruzione del pianeta Terra, volessero saperne un po’ di più sulla vita, i sentimenti di noi umani.

Ma cos’è un Totoro? Un Totoro è uno spirito della foresta, una specie d’orso gigante, morbido quanto pigro, che vive assieme ad altri piccoli spiriti spostandosi a bordo di un Gattobus. Proprio così …un autobus vivente dalle parvenze di un gatto! Certo, non è facile trovare un Totoro. Ci vogliono purezza d’animo e di sguardo, ingredienti insomma facili da trovare nei bambini che, infatti, di questa storia sono i protagonisti: Satsuki di undici anni  e sua sorella Mei di quattro. Le due vivono assieme al padre in una piccola casa di campagna nella quale si sono appena trasferiti. Le loro giornate trascorrono quindi all’aria aperta, a contatto della natura (quanti ricordi di Heidi…) e con un’allegria scalfita soltanto dal pensiero della mamma ricoverata e che ancora non può essere dimessa. Il fantasma della tragedia è di là, pronto all’agguato, ma Miyazaki è bravissimo a ridimensionarne la minaccia. Sì, perché – come recita la canzone originale – se incontri un Totoro una sorprendente fortuna verrà da te. La speranza, la fiducia nella vita anche quando tutto sembra andare per il peggio, rifioriranno proprio come i germogli che lui invita a seminare. Si pensi, ad esempio, alla scena in cui le due sorelline aspettano alla fermata del bus il rientro del padre. La paura che qualcosa di brutto possa essergli capitato si fa sempre più pesante, opprimente… La pioggia, l’oscurità e queste due bambine sole sul ciglio della strada …ma improvvisamente appare Totoro! E’ lì accanto a loro. Satsuki, che tiene Mei addormentata sulle spalle, se ne accorge e non sa se avere paura o no. Per gentilezza gli offre un ombrello. Totoro lo afferra e, dopo aver sperimentato il suono elettrizzante di una goccia di pioggia su di esso, con un salto fa tremare gli alberi attorno a sé facendo piovere dalle foglie una cascata di gocce che lo mettono subito di buon umore. Il senso sta tutto nell’uso dell’ombrello, che in altre parole significa nel modo con il quale guardiamo alle cose. Per Satsuki l’ombrello  serve a riparare se stessi dalla pioggia. Per Totoro serve ad amplificare il suono della natura.

Anche l’insegnamento morale del padre di Satsuki e Mei va in questa direzione. La natura diventa madre accogliente proprio durante l’assenza della madre biologica. Quando Mei gli rivela d’aver visto un Totoro, il padre non ne ride, non bolla la confidenza della figlia come frutto della sua immaginazione. Semplicemente le crede. Non solo: le spiega anche perché sia capitato proprio a lei d’aver visto un Totoro e provvede a recarsi là dove la piccola dice di averlo visto. Il mondo degli adulti si accosta così a quello dell’infanzia con la saggezza e l’esperienza che gli sono propri senza moralistiche pretese. I bambini, dal canto loro, si svincolano dalle tristezze della vita e vanno a cercare nel fantastico, nel magico, quello di cui hanno bisogno: la meraviglia, lo stupore, la possibilità dell’impossibile…

(8/9)

PETER PASQUER COME BACK!
“CORALINE” di Henry Selick

C’era un cartone animato, trasmesso negli anni ’80, che mi affascinava e terrorizzava insieme: La balena Giuseppina. Ambientato in Spagna, raccontava le vicende di Choppy e della sua balena immaginaria, compagna di giochi e di avventure. In una di quelle puntate, ricordo, Choppy usciva da scuola e non trovava suo padre o sua madre ad aspettarlo. Arrivato a casa, dopo tanto camminare, scopriva con orrore che tutti i suoi familiari, dalla nonna alla sorellina, erano altri. Somigliavano a quelli, ma non erano quelli. Roba da David Lynch! La cosa, all’epoca, mi toccò profondamente perché anch’io – qualche tempo prima – feci un sogno molto simile a quella puntata… In “Coraline” succede la stessa cosa. Anche se qui non si tratta né di immaginazione o soggezione (come per il Choppy de La balena Giuseppina), né di sogno (come nel mio caso…) Nel film di Selick, la piccola Coraline scopre nella nuova casa una porta e, come una novella Alice, ovviamente la apre. Il mondo aldilà di essa ci appare subito in tutta la sua apparente normalità: Coraline si ritrova infatti nella sua stessa casa …con alcune sottili differenze. Sua madre e suo padre sono gli stessi eppure qualcosa non va… Al posto degli occhi hanno due bottoni e manifestano un atteggiamento un po’ troppo sopra le righe rispetto ai loro rispettivi cloni del mondo reale. Ecco, il mondo reale… Quello di “Coraline” risulta a tratti più allucinante di quello oltre la porta, elemento che crea una continuità disturbante anche perché  le luci e i colori del mondo fantastico affascinano al tal punto che, se non fosse per tutti quei bottoni al posto degli occhi, lo preferiremmo. Un meraviglioso disorientamento per grandi e piccini che deve molto sia alla tecnica di realizzazione (ripresa stereoscopica con doppia fotocamera capace di darci una qualità visiva straordinaria), sia al lavoro fatto in sede di sceneggiatura: la storia tratta dal libro di Neil Gaiman non propone solo una rilettura dark della fiaba di Carroll bensì, con l’espediente del tema del “doppio”, accenna anche alle teorie psicanalitiche sull’infanzia. Coraline è come se non avesse superato la posizione schizoparanoide  individuata da Melanie Klein. Ragion per cui la mamma è vista non come un unico soggetto comprensivo e severo ma come due soggetti distinti: uno comprensivo e l’altro severo, laddove – paradossalmente ma non troppo –  la mamma comprensiva è quella che poi si rivelerà “cattiva”. I concetti di “integrazione” e “riparazione” sono infatti quelli che porteranno alla soluzione della storia, al suo (relativo) lieto fine. Coraline finalmente capisce che la madre non è più due ma un tutt’uno (capace di comprensione e severità, staccata da sé) e ripara la sua precedente condizione. Anche il rapporto col padre, fino a lì quasi assoggettato alla moglie/mamma,  sembra trarne giovamento. Tuttavia, la fiaba stratificata di Helsik (lodevole nel suo complesso), presenta qua e là qualche caduta di ritmo e una certa difficoltà nel rendere veramente toccanti i passaggi malinconici o più espressamente poetici.

(7)

“MARTYRS” di Pascal Laugier

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Il cinema horror torna finalmente a bussare alle nostre porte con inquietante insistenza, rivendicando uno spazio di tutto rispetto fuori dal quale certe questioni di carattere morale e/o politico possono essere affrontate solo tramite il vezzo dell’allusione che, per quanto usata con intelligenza e acume, fatica a mostrarne la faccia più raccapricciante, dolorosa, intensa. “Martyrs” è innanzitutto un’opera sul dolore fisico, sulla sua sopportazione ai limiti dell’umano, dolore capace di sublimare l’individuo e renderlo testimone di un “dopo”. Il dolore inteso quindi come chiave per accedere ad una visione altra, dolore che percepiamo costantemente anche noi spettatori, “martiri” chiamati a vedere ciò che sta oltre lo schermo, oltre cotanta violenza e spietatezza che, per quanto malate siano, sottendono una ragione che ci verrà data solo alla fine del supplizio a cui siamo stati sottoposti. Per il resto non è facile parlare del film di Laugier senza togliere il piacere (piacere per l’horror…) a chi ancora dovrà vederlo. Ad un tratto, subito dopo la prima parte, mi sono chiesto: “E ora? Come andrà avanti il film?” C’è una mattanza dopo la quale ci si sente frastornati e curiosi, con lo spettro della delusione pronto a fare capolino. E invece no, nessuna delusione. Bisogna avere fede. Il film deve ancora iniziare. Deve ancora darci il meglio di sé. L’emorragia non s’è fermata, anzi. Entra di scena la filosofia del dolore. Le inquadrature si fanno più fredde, spietate, crude. I fuoricampo visivi latitano. E quando utilizzati producono brividi cinematograficamente mai provati prima.

“A l’interieur” e “Lasciami entrare” avevano già tracciato un solco indelebile nella recente cinematografia horror. A loro va il merito, piaccia oppure no, d’aver strappato agli americani le sorti del genere staccandolo non solo da certi stilemi (su tutti l’uso shock dell’audio e degli effetti digitali sempre uguali a se stessi) ma anche da quelle sterili prese nostalgiche figlie dell’ideologia postmoderna. Con “Martyrs” non c’è “Hostel” o “Saw” che tenga. Né “Grindhouse”, né “Planet Terror”, né Rob Zombie, né tutta la serie dei mai nati e degli orfani satanici in fila indiana.

“Martyrs”  ha detto all’horror: “Prego, di qua…”

(8)

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“FRANKLYN” di Gerald McMorrow

Cos’è “Franklyn” se non l’ennesima opera derivativa? Una pellicola che ricalca il solco di altre pellicole sul medesimo argomento, quello della Distopia. C’è “V per Vendetta”, “Dark city”, ovviamente “Matrix” e via regredendo fino a “Brazil” e “Metropolis”… Tuttavia non amo analizzare un film citando altri film, tantomeno facendone il paragone per cui… Ricominciamo. Azzeriamo e partiamo solo dal film di McMorrow.

C’è Meanwhile e c’è Londra. La prima è la trasfigurazione della seconda. A Meanwhile, dominata dal fanatismo religioso, si aggira uno strano eroe un po’ Roarschach e un po’ Batman (…la citazione è doverosa perché si capisca il “tipo”…) L’eroe si chiama Preest (che sembra Priest/Prete …ma non è visto che si definisce ateo) ed è alla ricerca de “l’Individuo”, un misterioso capo religioso reo d’aver fatto fuori una donna. Contemporaneamente a Londra, assistiamo alle vicende di Emilia (una studentessa che fa del suicidio l’elemento fondante della sua stessa arte…), Esser (un uomo alla ricerca di David suo figlio…) e Milo (un giovane che rivede in una ragazza, Sally, la bambina immaginaria con la quale da piccolo giocava…) Tutti questi personaggi sono alla ricerca di una connessione fra loro. Quale?

E qui chi non ha visto il film può fermarsi. L’analisi mi è impossibile senza SPOILER.

Allora… Preest vive in un mondo immaginario. In realtà lui sta a Londra e non a Meanwhile e si chiama David. Meanwhile è solo una sua proiezione, un mondo parallelo creato dalla sua mente di reduce di guerra. Bene. Lo scopo di David è quello di uccidere suo padre cioè Esser (è lui l’Individuo dei suoi incubi …del suo subconscio, l’Es(sser)) perché reo d’aver fatto sparire sua sorella Sally (?), con la quale Milo da piccolo giocava e che improvvisamente poi sparì…

Se questo è il filo che lega i personaggi tra loro, il finale forse acquista una sua credibilità. Peccato però che si tratta di una ricostruzione fatta senza tutti gli indizi necessari. A mio avviso è questo il difetto di “Franklyn”; la scrittura troppo ad effetto è in debito con lo spettatore… La mia personale ricostruzione infatti parte da un particolare: com’è possibile che Sally abbia le stesse fattezze di Emilia? Se Sally è immaginaria è fin troppo inverosimile che Milo, dopo essersi accomiatato da lei, si trovi davanti una ragazza identica a lei nel finale. Quindi, ho pensato, che se Sally fosse stata la sorella sconosciuta di David (con la quale Milo giocava da piccolo e che in seguito è cresciuta col falso nome di Emilia…) tutto avrebbe avuto più senso. Milo “abbandona” Sally (che sparisce per sempre dalla sua immaginazione) ma il destino vuole che si trovi proprio sotto casa di Emilia e che i due s’incontrino. Il sogno, l’immaginario si fa carne e l’anello si chiude.

Detto questo, aggiungo che “Franklyn” non è per niente un film da evitare. Anzi. L’atmosfera dark del film è accurata, così com’è ben riuscita l’alternanza tra i due mondi. Peccato soltanto il ritmo inutilmente dilatato di certe scene, la verbosità di alcuni dialoghi e, appunto, una sceneggiatura troppo attenta a “straniare” piuttosto che a spiegare. La sensazione è quella di un’opera sì ambiziosa, sì affascinante, ma incapace di farci innamorare davvero.

(6)

“TWO LOVERS” di James Gray

PETER PASQUER COME BACK!

In bilico tra noir e dramma, tra ritmo e sospensione dello stesso, il James Gray de “I padroni della notte” mi colpì subito per il taglio secco, sicuro, essenziale. Quanti altri ormai? Pochi. A parte il mitico Clint Eastwood, mi viene in mente Michael Mann, il David Fincher pre-Benjamin Button, forse Cristopher Nolan, senz’altro Jonathan Demme… Cinema asciutto ma non prosciugato. Denso di riferimenti (minimalista? su, dài, non scherziamoci ancora con questo termine…) delicato, accurato, “Two lovers” ci racconta una dolce e amara storia d’amore come da tempo non se ne vedevano. I personaggi intensi e straordinari. Su tutti Joaquin Phoenix (attore che non sempre ho amato) e  Isabella Rossellini, qui nel ruolo davvero poco facile di mamma che “legge tra le righe”. Ecco, appunto, le righe… Sembrano appartenere ad un racconto di Dostoevskij. “Le notti bianche” di Pietroburgo e le notti nere, grigie, dolorose, sfumate di speranze e illusioni della provincia americana…

La regia di Gray ci avvicina al protagonista, al suo sguardo sul mondo, ora direttamente ora attraverso la sua macchina fotografica. Ci fa godere e meravigliare con lui. In amore e nel quotidiano. Senza mai cedere alla malinconia melensa, allo straordinario …ché questa non è una storia d’amore che va sottolineata, urlata, addolcita da musiche roboanti e sguardi compassionevoli. La compassione c’è ma è fugace. La scusa non voluta per un affondo di sguardo sulla contraddittorietà dell’esistenza, sulle ferite invisibili di ciascuno di noi. “Two lovers” si apre col tentativo di un suicidio, procede con un ripensamento e continua col tentativo di voler credere, malgrado tutto, alla vita. Grigia com’è.

Il protagonista, Leonard, è un uomo diviso. Ha un bivio e lo imbocca. Rimane qui e là. Tra la sicurezza di un’esistenza soffocante ma con lo spiraglio luminoso rappresentato dalla dolce Sandra (che i suoi vorrebbero che sposasse) e l’incertezza, quindi l’avventura, il fascino, di Michelle (opposto di Sandra). Vorrebbe essere l’uno e l’altro, Leonard. Fuori da quel dentro che lo protegge e rinchiude, e dentro a quel fuori che lo smarrisce e che rischia di stritolarlo; tra il dover essere e il voler essere. Chi è Leonard? Ce lo chiediamo per tutto il film. Dove vuole portarci/si? Qual è la scelta migliore per lui? La sua incapacità di decidere non ci consente risposte esaustive. Stiamo ad aspettare con lui il dispiegarsi degli eventi, l’arrivo di una scelta. Definitiva? Diciamo “non provvisoria”. Una scelta che arriva da sé, quasi – passatemi il termine – kieslowskianamente. Senza che lui faccia nulla o quasi. Davanti alla riva del mare, tra il freddo e l’oscurità. Col fantasma del suicidio nuovamente alle spalle e con un guanto nero ai suoi piedi ad indicare la via di casa.

(8)


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