Petrolio

Creato il 26 novembre 2014 da Conflittiestrategie

Il Club di Roma[1] lanciò l’allarme: il petrolio era destinato a esaurirsi con serie conseguenze sullo sviluppo e sulle nostre economie. Era il 1972, quarantadue anni fa. Queste previsioni si fanno, contando che siano dimenticate. Noi le ricordiamo e le richiamiamo alla memoria di tutti.
A nessuno venne in mente di verificare ed eventualmente rintuzzare previsioni così catastrofistiche. Per la verità, qualche scienziato storse il naso di fronte a congetture troppo disfattistiche ma non se la sentì di contraddire la vulgata in quel momento, divenuta predominante e anche professionalmente remunerativa.
Il rapporto era stato elaborato da una “Istituzione” accademica, il MIT di Boston, tra gli Istituti universitari americani più accreditati nella ricerca scientifica e tecnologica, per cui si pensò che, essendo la fonte così autorevole, le informazioni contenute nel dossier dovevano necessariamente essere supportate da prove inequivocabili. Non era così ma ci sono voluti parecchi anni per squarciare quel velo di approssimazioni non del tutto innocenti e disinteressate sotto il profilo ideologico e finanziario-speculativo.
Nello studio si sosteneva che nel giro di trent’anni l’estrazione di oro nero avrebbe raggiunto il suo picco dopodiché la produzione sarebbe calata rapidamente, fino al definitivo esaurimento dei giacimenti più redditizi. Estrarre petrolio dalle viscere della terra sarebbe divenuto diseconomico e gli effetti di questo progressivo svuotamento dei depositi di idrocarburi si sarebbero sentiti, in modo rilevante, già al calar del XX secolo. Con i pozzi vuoti gli esseri umani avrebbero dovuto ripensare il loro way of life, diminuendo sprechi e rivedendo radicalmente i consumi, puntando, altresì, su fonti energetiche potenzialmente inesauribili, rinnovabili ed alternative a quelle “classiche” come quelle derivanti dal sole e dal vento. Come si dice in questi casi, il tempo è stato galantuomo ed ha demolito gli sbrigativi postulati dell’epoca, smentiti dai fatti, da studi successivi molto più accurati e da nuove scoperte minerarie.

Le previsioni camminano col tempo

Il Peak Oil[2] è stato via via spostato più in là; oggi lo si colloca nel 2050 o addirittura nel 2100, dagli stessi del Club e dai fautori della teoria apocalittica, evitando però accuratamente di fare mea culpa per gli abbagli presi in passato. Costoro, anzi, invece di ammettere i propri svarioni hanno rilanciato il “bluff” (forse per non perdere i lauti finanziamenti statali e privati, oltre che per non uscire da sotto i riflettori dei media), modificando il tema principale di quelle che possiamo ormai chiamare invettive moralistiche più che studi seri, ovvero spostando il fulcro del problema dai limiti dello sviluppo al cambiamento climatico di origine antropica.

Il Peak Oil è stato via via spostato più in là; oggi lo si colloca nel 2050 o addirittura nel 2100

Ma anche quest’ultimo verdetto ha scatenato numerose polemiche. Molti centri di ricerca hanno smentito i presupposti e gli esiti delle indagini climatiche più “à la page”, negando, dati alla mano, che gli effetti dell’attività umana siano in grado di provocare mutamenti ambientali persistenti e irreversibili. In questa sede non divagheremo ma chi vuole può documentarsi meglio anche sul tema del global warming (o Climate Change o Climate Disruption e via inventando) contestato da una fetta consistente della comunità scientifica (alle analisi in voga della IPCC http://www.ipcc.ch/ si contrappongono quelle critiche della N-IPCC http://www.nipccreport.org/).
Le previsioni del Club di Roma sono state cavalcate a lungo (e, in parte, lo sono ancora) dai Governi e dalle organizzazioni ambientalistiche, da singoli esponenti politici molto influenti nella Comunità Internazionale, da filantropi improvvisati e generalmente molto ricchi e da organismi mondiali sorti all’uopo. Gli Stati, pur aderendo a protocolli ed iniziative per la gestione più oculata delle fonti energetiche e per la riduzione delle immissioni inquinanti nell’aria (vedi protocollo di Kyoto), non hanno mai abbandonato la vecchia strada dello sfruttamento dei combustibili fossili. Mentre cercavano di convincere vicini, alleati e nemici ad allentare la morsa delle prospezioni (li scoraggiavano per lo più per timore di una agguerrita concorrenza su una risorsa economicamente ritenuta scarsa) si buttavano a capofitto in guerre di appropriazione per sottrarre idrocarburi a paesi più deboli, incapaci di resistere ai loro assalti e chiedevano, altresì, ai loro esperti di andare a trovare l’oro nero ovunque si celasse, in mare, nelle rocce, tra i ghiacciai, al fine di evitare, se non alla razza umana almeno ai propri cittadini, un pauroso salto indietro nel medioevo. L’intelligence geoeconomica chiama queste battaglie, stimolate ad arte per frenare la competitività di concorrenti pericolosi nel medesimo settore, guerra cognitiva. Ma i buoni e facili sentimenti, fulcro di tali manovre dietrologiche, si sono scontrati con le ragioni della geoeconomia e della geopolitica, quella di Potenze mondiali sempre più assertive ed aggressive nel procurarsi la sicurezza energetica che significa, al contempo, superiorità industriale e militare.

Business is business

Oggi, per citare qualche esempio, gli americani, pionieri dell’ambientalismo e della preservazione del pianeta dalla mano umana ipersfruttatrice, soprattutto a parole, usano una tra le tecniche più invasive e dannose per l’ambiente per ottenere shale oil e shale gas. Si tratta di pratiche di frantumazione degli scisti argillosi che colpiti da getti d’acqua ad alta pressione, uniti a composti chimici, permettono di recuperare gas e petrolio in grandi quantità. Secondo molti analisti le ultime scoperte in questo settore permetteranno agli Usa di raggiungere l’autosufficienza energetica e di trasformarsi in paese esportatore, con considerevoli vantaggi per i bilanci e i livelli occupazionali. Al Gore, ex vice-presidente democratico americano, che ha girato il mondo portando i temi ecologici al cospetto di platee incantate (anche in Europa), tanto da meritarsi un Nobel, non ha detto una parola sulla questione. La sicurezza nazionale ed il benessere economico della patria evidentemente vengono prima delle pie aspirazioni su un mondo migliore, soprattutto se queste intaccano gli interessi strategici della Casa Bianca. Abbiamo sempre qualcosa da imparare dalla pragmaticità statunitense.

I russi, al pari degli americani, si sono dati da fare per allontanare lo spauracchio di un’epoca a luci spente e macchine ferme. L’economia di Mosca è fortemente dipendente dal gas e dal petrolio, sia per i consumi interni che per l’export, per cui dovervi rinunciare per raggiunti limiti estrattivi o timori di cataclismi climatici costituirebbe un dramma nazionale. C’è da dire che, a parere di molti luminari, l’impatto sul clima dell’uso dei combustibili fossili è del tutto irrilevante se non persino positivo ed anche se gli uomini lo tirassero fuori per utilizzarlo nelle loro attività fino all’estremo (su per giù 100 anni stando ai dubbiosi calcoli attuali) la temperatura terrestre non ne sarebbe intaccata. Tuttavia, gli scienziati russi ritengono errata la conclusione che il petrolio derivi dalla compressione, avvenuta per decine di milioni di anni, di organismi viventi intrappolati sotto la superficie della terra. Essi stanno lavorando in un’altra direzione, sin dagli anni ‘50. La teoria elaborata dagli studiosi russi suggerisce che il petrolio possa essere di origine abiotica e non fossile. Questo comporta due novità (sempre che la teoria corrisponda al vero): 1) le riserve di petrolio potrebbero ancora soddisfare le esigenze umane per altri 500 anni, 2) si può andare a ricercare tale materia prima anche laddove era impensabile che si nascondesse. Ed è quello che hanno fatto i nostri vicini slavi. Se, effettivamente, greggio e gas sono materiali primordiali che si sono formati con la terra, la loro presenza in natura dipende dalla quantità di costituenti idrocarburici presenti nelle viscere del nostro pianeta, da quando è venuto ad esistenza. Con l’ausilio di una tecnologia adeguata diventa avverabile scovarlo anche a profondità più elevate dove prima non veniva cercato perché la teoria biologica ne escludeva a priori la presenza. Muniti di queste conoscenze, russi e ucraini hanno perforato le zone intorno al bacino del Dniepr-Donetsk (proprio quelle dove oggi infuria la guerra tra Mosca e Kiev, sarà solo un caso?). Qui sono stati aperti più di una trentina di pozzi la cui produttività conferma in pieno la teoria e manda in soffitta quella alternativa, sulla quale si basavano le idee del peak oil del geologo Marion King Hubbert, secondo il quale avremmo dovuto rassegnarci, almeno dal 1970 in poi, ad un’era di scarsità dell’oro nero.
A prescindere dalla narrativa scientifica è inequivocabile che ancora oggi, nel XXI secolo, il petrolio influenzi la geopolitica planetaria e le relazioni tra i paesi che lottano aspramente per accaparrarsi i pozzi migliori e le aree di sfruttamento più redditizie. L’instabilità mondiale nelle zone dove sgorgano copiosamente gli idrocarburi è la testimonianza lampante di quanto sosteniamo. E’ molto probabile che le guerre energetiche caratterizzino ancora il nostro secolo, proprio come quelli precedenti. Basti pensare a quanto sta succedendo attualmente nell’Artico, polo strategico che sta suscitando gli appetiti dei big mondiali già pronti a sfidarsi per l’utilizzazione di quelle terre ghiacciate. Stati Uniti, Russia, Canada, Norvegia, Danimarca, Svezia, Islanda e Finlandia sono gli Stati direttamente coinvolti nella corsa alle sue risorse, dove sonnecchiano mega-giacimenti minerari che fanno gola a molti. Qui il colosso russo Rosneft ha scoperto con ExxonMobil riserve di petrolio per 750 milioni di barili oltre che depositi per 338 miliardi di metri cubi di gas. Siamo ai livelli dell’Arabia Saudita, il che dovrebbe chiarire l’importanza del rinvenimento e le sue potenzialità future. L’Artico sta rientrando al centro di una immensa disputa internazionale con varie rivendicazioni da parte dei paesi che si affacciano su di esso. Le ricchezze del sottosuolo del polo nord diventeranno il motivo per le guerre di domani, come certifica la militarizzazione del perimetro in argomento e l’apertura di dispute legali per la sovranità territoriale tra i membri della comunità mondiale. L’Artico è solo un’altra zona di potenziali conflitti che si aggiunge a quelle dove l’instabilità e le guerre hanno accompagnato gli eventi del passato. Pensiamo al Medio-Oriente, al Sud America, all’Africa e, più recentemente, al Caucaso.
Se il petrolio è davvero in esaurimento come spieghiamo la mastodontica rete di infrastrutture che si continua a costruire per la sua estrazione e commercializzazione, nonché le continue ostilità che esplodono tra i players coinvolti, tanto aziende multinazionali che nazioni in varie aree del mondo? Qualcosa non torna nelle narrazioni ufficiali… Infatti, le dispute sulle risorse vitali, come ha scritto recentemente l’analista americano M. T. Klare[3], domineranno le questioni internazionali per i prossimi decenni ed i fronti caldi si moltiplicheranno e si infiammeranno ad ogni scoperta di nuovi giacimenti. Anzi, i conflitti maggiori saranno alimentati proprio dalle diatribe sul petrolio e sul gas, coinvolgendo le vie di comunicazione dove transitano dette risorse naturali. In particolare, Klare individua quattro aree a forte rischio bellico per la loro collocazione al centro delle rivalità energetiche planetarie: lo Stretto di Hormuz, i mari cinesi, il mar Caspio e l’Artico. Dice Klare: “Nella nuova era geo-energetica il controllo delle fonti di energia e il loro trasporto ai mercati sarà al centro delle crisi globali”.

Il problema italiano

Come si colloca il nostro Paese in questo campo e nelle trame che si intrecciano a livello internazionale su un dossier strategico che deciderà, nell’imminente futuro, del benessere dei cittadini e dei rapporti di forza tra gli Stati? La Penisola, purtroppo, viene ricacciata indietro da partner e antagonisti più assertivi, i quali non vanno tanto per il sottile quando si tratta di sicurezza energetica che invece, essa, fatica a tutelare. L’Italia arretra quasi ovunque e perde i suoi tradizionali canali di penetrazione estera, poiché non offre garanzie sufficienti alle classi dirigenti locali, subisce passivamente mutamenti di regime che penalizzano il lavoro fatto antecedentemente oppure non è in grado di resistere, con mezzi adeguati, alla pratiche di guerra economica e di concorrenza scorretta usate dai suoi competitori, come le manovre speculative in borsa o gli attacchi, anche attraverso indagini ad orologeria delle magistrature straniere e nazionali, alle sue imprese di punta.
L’Italia è inoltre messa all’angolo proprio nei contesti esteri dove distanziava per competenza e abilità diplomatiche i competitors. In Libia, dopo la cacciata di Gheddafi, ha perso un alleato determinante a vantaggio di francesi, inglesi ed americani. Molti dei nostri accordi privilegiati con Tripoli sono saltati ed anche gli approvvigionamenti da quel Paese sono diventati meno sicuri del recente passato. Le pressioni nei confronti di Siria ed Iran, da parte della Comunità Internazionale, stanno danneggiando ancora una volta la nostra nazione che con quei popoli deteneva, fino a poco tempo fa, un interscambio commerciale di primissimo piano. I nostri rapporti bilaterali di rilievo s’interrompono e si frantumano, con perdita di crediti e di credibilità, a causa delle gelosie degli “amici” occidentali e dell’incipiente caos geopolitico portato con sé dell’era multicentrica che sta facendo emergere, sulla scacchiera globale, vecchi e nuovi giganti orientati a contendere la supremazia atlantica.
Eppure, il Belpaese resta all’avanguardia nel settore dello sfruttamento del petrolio e del gas, per tecniche usate e per savoir faire diplomatici, cioè per aver saputo sempre instaurare relazioni win-win con i governi stranieri coi quali si è approcciata per la ricerca, l’estrazione e la commercializzazione di tali materie prime.

L’Eni, la nostra multinazionale degli idrocarburi, ha una storia gloriosa alle spalle e continua, nonostante le crescenti difficoltà, a conquistare mercati internazionali. Questo meritato prestigio dà molto fastidio ai concorrenti che non perdono occasione per soffiarle clienti ed affari, nei modi più scorretti. In un ambito in cui geopolitica e business sono fin troppo mescolati, la debolezza e l’incostanza politica che caratterizza, da troppi decenni, i governi italiani, ormai sempre meno in grado di proteggere i propri bisogni strategici, stanno diventando un problema che si ripercuote sulle opportunità di profitto e di crescita economica delle nostre imprese leader. Ma se veniamo respinti all’estero non possiamo far altro che cercare in casa quello che smarriamo fuori. Se non siamo in grado di fare i conti con i disequilibri del multipolarismo, che rendono viepiù incerti gli investimenti nei teatri di persistente instabilità (dove abbondano le fonti primarie), i quali richiederebbero un sovrappiù di forza politica per la protezione dei nostri capitali e delle nostre infrastrutture, non possiamo far altro che aumentare lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo in patria, con tutte le conseguenze del caso.
Poiché ogni iniziativa italiana al di fuori dei confini viene ostacolata dobbiamo ricercare soluzioni che limitino i danni spremendo i nostri territori. L’energia è indispensabile allo sviluppo e alla crescita economica e se non siamo all’altezza di reperirne a prezzi accettabili ed in quantità certe rischiamo il decadimento industriale e la retrocessione politica.
Nella giusta direzione, al fine di limitare tali pericoli, va il progetto che l’Eni ha avviato con la Gazprom. Il South Stream, così si chiama il consorzio a cui l’Italia partecipa con un 20% di azioni (il 50% è dei russi, ed un 15% per cento a testa si dividono la tedesca Wintershall e la EDF francese), è un’autostrada del gas che aggira alcune nazioni, come l’Ucraina, paese che sobillato dagli Usa e dall’Ue (i quali hanno contribuito al colpo di Stato di febbraio a Kiev), non perde occasione per provocare Mosca. Inizialmente, il partenariato era a due, Eni e Gazprom, poi le pressioni europee e quelle statunitensi hanno costretto il Cane a sei zampe ad annacquare la propria quota, scendendo appunto al 20% per far spazio a Berlino e Parigi. Nel frattempo, l’UE ha fatto di tutto per depotenziare la portata di tale programma poiché, a detta dei burocrati di Bruxelles, la dipendenza dagli approvvigionamenti russi sarebbe divenuta eccessiva, andando contro le norme comunitarie. In verità, sono soprattutto gli statunitensi a non apprezzare la crescente contiguità tra le imprese di stato russe e le altre aziende europee, in primis quelle italiane. L’obiettivo americano, dopo la presidenza Bush, è stato quello di recidere di netto i colloqui russo-italiani sulla politica estera in generale e su quella energetica in particolare, visti come fumo negli occhi negli ambienti atlantici che hanno deciso di isolare il Cremlino dal vecchio continente. Oggi, per ragioni che esulano dalla profittabilità economica, che per l’Italia sarebbe immensa, Roma tentenna sul progetto e si gioca la sicurezza energetica per i prossimi decenni, soltanto per non indispettire Washington e Bruxelles. A risentirne saranno i cittadini italiani e le imprese del nostro tessuto produttivo. Eppure, quando è stato completato il troncone nord del medesimo gasdotto,

Basilicata: una regione strategica

Il North Stream che sbuca Greifswald, in Germania, in comproprietà tra russi, tedeschi, olandesi e francesi, nessuno ha avuto da ridire, ed anche se ci ha provato è stato immediatamente zittito da Berlino che sa tutelare le sue prerogative. Forse i tedeschi hanno più diritti di noi italiani in Europa?
Ma se Roma non potrà agire liberamente sui mercati energetici che le interessano dovrà chiedere alle sue comunità, che però sono stanche di dare senza ricevere mai nulla in cambio, sacrifici aggiuntivi ed esorbitanti.
Dobbiamo prepararci ad una lunga stagione di trivellazioni su tutto lo Stivale, perché i nostri decisori si sono fatti soffiare le occasioni migliori in giro per il mondo o hanno ripiegato di fronte alle minacce di potenze più aggressive. Come scriveva tempo addietro il WSJ: “Con una stima di 1,4 miliardi di barili, l’Italia ha le terze più grandi riserve certe di greggio in Europa, dietro solo ai giacimenti offshore della Norvegia e del Regno Unito, secondo la BP BP.LN -0.40 % Statistical Review. Gran parte del petrolio in Italia è in Basilicata, una regione agricola e montagnosa punteggiata da pittoreschi uliveti e borghi medievali. È anche uno dei luoghi più poveri d’Italia, con il 14,5% di disoccupazione su una popolazione di 600.000 abitanti e poche infrastrutture e industrie”. Una notizia che sembra una minaccia, soprattutto per i lucani. Temo che i cittadini lucani, nonostante si siano già attivati con molti comitati civici per il no alle trivellazioni, non otterranno nulla da una chiusura pregiudiziale verso l’aumento delle estrazioni, considerato il discorso fatto sopra. L’Italia ha un tremendo bisogno di incrementare la produzione interna, a causa degli errori di politica estera commessi negli ultimi decenni da uomini poco avvezzi alle decisioni atte a salvaguardare le superiori ragioni dello Stato. Per questo bisognerà cercare di ottenere il massimo, in termini risarcitori e di maggiori opportunità di sviluppo, dal “disturbo” che verrà arrecato alle comunità dalle imminenti perforazioni.

La Basilicata diventa una regione più strategica delle altre, in questo momento storico, e merita, se il governo vorrà davvero mettere le mani sul suo tesoro, di essere ripagata a dovere per i disagi che inevitabilmente dovrà patire. E’ inevitabile se non vogliamo precipitare nel circolo dei paesi pezzenti del capitalismo europeo.
Gli italiani devono però anche sapere che questa urgenza è divenuta tale per la codardia delle nostre classi dirigenti le quali, ingabbiate nella visione di un orizzonte unipolare in disgregazione, sotto il quale hanno vissuto comodamente per più di 50 anni, hanno ignorato i pesanti cambiamenti in atto sulla scacchiera geopolitica.
In un periodo in cui occorreva ripensare la propria collocazione strategica, magari rompendo vecchie alleanze divenute deleterie, le nostre élite hanno scelto di contrattare la loro permanenza al potere svendendo la sovranità nazionale. Oggi l’Occidente e l’Europa ci percepiscono come una provincia periferica che può soltanto sottostare alle decisioni prese a Washington o a Bruxelles. I loro desiderata non coincidono più coi nostri ed è il momento di prenderne atto.
Se lo avessimo fatto per tempo avremmo già una politica estera ed una opzione energetica adeguate alle richieste del sistema-paese e a quelle dei cittadini che temono per la loro salute e il loro benessere economico. Cosicché, per diktat estranei alla nostra volontà, non possiamo andarci a prendere o comprare idrocarburi dai russi, dagli iraniani, dai libici ecc. ecc. a prezzi concorrenziali, a minor impatto ambientale per il nostro territorio e a maggior sicurezza degli approvvigionamenti nazionali ma possiamo mettere in croce gli italiani ogni due per tre.

Chiudere al petrolio significa aprire al nucleare

Sono questi gli argomenti da utilizzare per far cambiare strada al Governo e al Parlamento ed avviare un serio dibattito pubblico sull’energia. Non aiuta, invece, il terrorismo ambientalistico di chi strumentalizza l’emotività pubblica (è uno spettacolo pessimo quello delle manifestazioni in cui vengono coinvolti gli ignari studenti medi, i quali vengono portati in piazza senza un minimo di consapevolezza delle tematiche in argomento), alimentando meri pregiudizi antiscientifici, che sono la caratteristica dei movimenti no oil. Parimenti risulta speciosa l’improvvisa fermezza verso le comunità locali messa in campo da governanti generalmente affetti da smidollaggine e flaccidità (difetti visibili soprattutto nelle sedi internazionali dove costoro dovrebbero, invece, far valere le nostre prerogative nazionali), laddove il loro compito sarebbe quello di educare e far ragionare la gente. Tutto ciò rappresenta un abile gioco delle parti, quella che in filosofia si chiama “solidarietà antitetico-polare” (Lukács) tra antagonismi in apparenza irriducibili ma nella sostanza complementari, buoni solo a farci piovere addosso decisioni di istituzioni sovraordinate, che ci mettono così di fronte al fatto compiuto. Ed il fatto compiuto è che oggi l’Italia non è più padrona del suo destino, perché ce lo chiede l’Ue e chissà chi altro nascosto dietro ad essa. Qualcuno dovrebbe rappresentare ai professionisti della contestazione ad ogni costo ed ai politici che cavalcano l’onda dell’impressionabilità pubblica (salvo trovarsi in difficoltà quando tocca a loro prendere decisioni impopolari) che al petrolio non si rinuncia tanto facilmente. In ogni caso, si pone il problema della sostituibilità di questa fonte con l’unica che in termini di efficienza e di produttività la eguaglia e cioè il nucleare. Ma anche su questa gli ambientalisti hanno da ridire, blaterando di pericoli che pullulano unicamente nelle loro teste. Un incidente in Ucraina, quello di Chernobyl, è bastato per far crescere a dismisura fantasmi che non hanno ragione di esistere. Con le tecnologie e i sistemi di sicurezza attuali i rischi derivanti dal nucleare sono bassissimi ed anche il problema delle scorie è facilmente risolvibile con stoccaggi fatti a regola d’arte, che non mettono a rischio la salute umana. Quando gli ambientalisti propagandano la possibilità di sostituire petrolio e nucleare con energie pulite, ricavate da fonti alternative derivanti dallo sfruttamento del sole o del vento, reclamizzano illusioni e balle sesquipedali. L’eolico incide per meno dell’1% sulla produzione mondiale e il fotovoltaico per meno dello 0.001%. C’è poco da esaltarsi. Ad ogni modo, come spiega il prof. Franco Battaglia, il sole può irradiare anche energia infinita ma questa deve essere trasformata per servire le attività umane. I sostenitori di dette fonti alternative (alternative a niente, come si può capire) fanno, dunque, confusione tra energia e potenza. Anche se la disponibilità di energia solare è illimitata, la potenza esitata è troppo bassa, stando ai sistemi di trasformazione in uso. Inoltre, il sole picchia quando vuole ed il vento soffia quando gli aggrada e non quando piace a noi. Invece, molti cicli industriali sono a regime continuo ed hanno dei picchi energetici durante la giornata, in virtù della fasi produttive, i quali non possono attendere il capolino del sole (comunque impossibile di sera) o i giramenti del vento. Concetti semplici che sfuggono agli invasati delle rinnovabili, tra i quali abbondano troppi letterati e politici e pochi scienziati.
In conclusione, non si può chiudere al petrolio senza aprire al nucleare (l’unica vera alternativa ecologica ed adatta agli scopi di una società opulenta). Chiudersi ad entrambi significa ritornare al vecchio povero mondo contadino, fatto di stenti, di patimenti e di candele accese al calar del tramonto. Niente più I-Phone, pc, internet, auto ecc. ecc. Gli italiani hanno la soluzione a portata di mano e questa si chiama petrolio. Bisognerà ottenere il massimo da questo tesoro sotto ai nostri piedi, facendo valere i nostri diritti. Il primo passo nella giusta direzione è quello di scacciare via i pregiudizi, il secondo quello di riuscire a contrattare con le istituzioni i privilegi che ci spettano, nel quadro di un rilancio strategico del Paese. Con le ricadute sulla collettività tutti si convinceranno di aver fatto la scelta giusta.

[1] Emanazione della Trilateral Commission o “Trilateral”, fondata il 23 giugno 1973 da David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e da altri notabili, tra cui Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski. L’organizzazione fu fondata a motivo del declino, in quegli anni, dell’influenza del Council on Foreign Relations, un precedente gruppo di studio americano di politica estera, le cui posizioni sulla guerra del Vietnam erano divenute impopolari.

[2] La teoria del picco di Hubbert (detta anche più brevemente picco di Hubbert) è una teoria  (o modello) proposta, nella sua formulazione iniziale, nel 1956 dal geofisico americano Marion King Hubbert, che modella l’evoluzione temporale della produzione di una qualsiasi risorsa minerale o fonte fossile esauribile o fisicamente limitata come una curva di Hubbert .[1] In particolare, l’applicazione della teoria ai tassi di produzione petrolifera risulta oggi densa di importanti conseguenze dal punto di vista geopolitico, economico e ingegneristico. (da Wikipedia

[3] Michael T. Klare is a Five Colleges professor of Peace and World Security Studies, whose department is located at Hampshire College, defense correspondent of The Nation magazine, and author of Resource Wars and Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Petroleum Dependency (Metropolitan). Klare also teaches at Amherst College, Smith College, Mount Holyoke College, and the University of Massachusetts Amherst. (da Wikipedia)


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