“Ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”
Pier Paolo Pasolini
Petrolio: un romanzo da rileggere
a cura di Angela Molteni
Incoraggiata anche dalla relazione di Vincenzo Calia, contenuta nelle oltre 400 cartelle degli atti della sua inchiesta, ho avvertito
l’esigenza di rileggere Petrolio. È da parte mia una ulteriore rivisitazione del romanzo pasoliniano ma questa volta non l’ho fatto per
ripercorrere le vicende di Carlo Valletti, anzi dei due Carlo (il protagonista, infatti, «è scisso in un Carlo di Polis e in un Carlo di Tetis,
che poi corrispondono alle due dimensioni in cui vive l’opera, quella del pubblico, del politico, e quella dell’intimo, del sessuale» –
uno sdoppiamento che lo stesso Pasolini adottò anche in La Divina Mimesis) [5]. Questo Carlo, industriale del petrolio, funzionario
dell’ENI, «è metà donna e metà uomo, un androgino che condensa in sé il rispettabile borghese, però di vedute aperte, di sinistra, e
quella, atroce, dell’essere simbiotico, orgiastico, che come Mister Hyde ha obliato ogni possibilità di redenzione» [6].
Non l’ho fatto neppure per ripercorrere le avventure argonauti- che (che sono argonautiche solo metaforicamente) o i racconti,
come Storia di due padri e di due figli o Storia di un volo cosmico (che fanno parte degli appunti di Petrolio dedicati all’Epochè), pagine
perfette e godibilissime nella loro compiutezza. Né per rinnovare lo stupore di leggere un accenno inquietante come questo:
«La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione’» [7].
La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto 1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto, pare che la “visione” l’abbia
avuta proprio Pasolini. Il quale – come scrive Carla Benedetti anche se riferendosi ad altro contesto, quello del Pasolini regista di
Medea – mette insieme mitico e realistico facendoli convergere «per esprimere la miseria della convenzione realistica nel separare
le cose da quello spessore allucinatorio che è la realtà, e che si può cogliere solo per visioni».
Il mio intento nel rileggere Petrolio era soprattutto il tentativo – ché non avrei potuto fare altro che tentare umilmente, e in maniera
del tutto soggettiva – di individuare i percorsi dello scrittore per narrarci alcune storie, per catturare la nostra attenzione, per stimolare
la capacità di comprensione di coloro che avrebbero letto le sue pagine con molta partecipazione e forse anche con qualche
sconcerto. Era in fondo il tipo di cammino compiuto dallo stesso Pasolini nella fase creativa del romanzo: «ristabilire la logica là
dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
Per azzardarmi a esplorare l’universo creativo pasoliniano era imprescindibile, intanto, che mi ancorassi saldamente alla realtà,
così come concepita da Pasolini, seguendo proprio la sua lezione: «Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in
effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della
realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà […]» [8].
Dunque, avrei dovuto procurarmi, per esempio, i documenti che lo stesso Pasolini stava utilizzando per realizzare alcune parti del
suo libro. E ancora: era indispensabile che mi mettessi in grado di padroneggiare anche il minimo riferimento socioculturale e politico,
informandomi su fatti per i quali le mie conoscenze fossero carenti per poterli approfondire e analizzare correttamente.
Quest’ultimo compito che mi ero autoassegnata era probabilmente il meno arduo, se non altro per motivi di anagrafe che mi
hanno visto attraversare numerose stagioni in cui è vissuto lo stesso Pasolini. Periodi durante i quali ho potuto condividere le analisi,
le critiche, le polemiche e le denunce che via via egli formulava nei suoi libri e nei suoi interventi giornalistici: dalla presenza di nazisti
e fascisti in Italia prima durante e dopo la seconda guerra mondiale, alla Resistenza infine vincente, alla successiva trasformazione
del nostro Paese in una democrazia, anche se in essa sono stati fin dall’inizio troppo presenti corpi estranei, corruzioni e intrighi, scandali
e prevaricazioni, oltre a consistenti residui del regime fascista appena abbattuto. Tra l’altro, tutti elementi agevolmente verificabili
e comunque storicamente indagati. Di Petrolio riporterò in queste pagine alcuni passaggi che ritengo
chiarificatori per acquisire anche circostanze da cui occorre prescindere, così come ricorderò alcuni elementi essenziali o controversi
dell’iniziativa giudiziaria che seguì la morte del poeta e gli sviluppi successivi, anche quelli riportati dai mezzi di informazione.
Tali elementi -per fare un solo esempio, l’indifferenza o la scarsa attendibilità con cui sono state condotte e trattate alcune indagini
riferite ai periodi in cui si verificarono i casi Mattei e De Mauro possono far meglio comprendere analoghi comportamenti degli organi
inquirenti (e non solo di quelli) nel caso dell’assassinio di Pasolini.
Ciò che mi prefiggo è proprio ricordare, prima di tutto a me stessa, alcune circostanze che concorrano a individuare i motivi e
le modalità del vero e proprio massacro che Pasolini ha subito quel 2 novembre 1975 [9]. E soprattutto possano fornire stimoli che
consentano di rileggere il più analiticamente possibile non solo Petrolio, ma ciò che riguarda la vita e la morte di Pasolini. Al termine di queste riflessioni vi sono cinque postille, indicate da asterischi nel testo, per un possibile, ulteriore approfondimento.
Ringrazio Giovanni Giovannetti. patron di Effigie che, oltre ad avere pubblicato nel suo sito internet (sconfinamenti.splinder.com)
l’introvabile libro Questo è Cefis – che, come vedremo, è stato una delle fonti del Petrolio pasoliniano – mi ha fatto pervenire fotocopia
del testo della relazione dell’inchiesta condotta da Vincenzo Calia, recuperato presso la Procura della Repubblica di Pavia: oltre quattrocento
pagine preziosissime in cui è possibile riscontrare la minuziosità e la perizia dell’inchiesta del magistrato pavese finalizzata
alla ricostruzione della fine di Enrico Mattei; il primo a suggerire una possibile connessione tra i delitti Mattei-De Mauro-Pasolini.
Alcune pubblicazioni e articoli apparsi su quotidiani e periodici negli ultimi anni avevano già fatto cenno alle indagini di Vincenzo
Calia e ai suoi riferimenti anche a Pasolini e al suo Petrolio. Ma la lettura della sua relazione dà la misura della minuziosità con cui il
magistrato ha lavorato e non può lasciare indifferenti coloro che come me hanno sempre prestato attenzione prioritariamente alle
opere letterarie e cinematografiche di Pasolini senza tuttavia dimenticare, neppure per un istante, che le modalità e le circostanze
angosciose della sua morte costituiscono tuttora un enigma irrisolto.
Propongo subito, quasi emblematicamente, due brani tratti da Petrolio che rappresentano una sorta di introduzione al pensiero
politico pasoliniano. La prima delle due citazioni dà particolare rilievo al sottile grado di ironia con il quale lo scrittore si rapporta alla
spaventosa situazione della società in cui vive. Una ironia spesso amara, osservata di frequente in Pasolini. Mi viene in mente, in
particolare, un indimenticabile passaggio del suo film I racconti di Canterbury (1971-72) in cui lo stesso Pasolini impersona Geoffrey
Chaucer, lo scrittore e poeta inglese autore di The Canterbury Tales a cui il film si ispira: il sorriso ironico-malizioso di
Pasolini/Chaucer sembra proprio accompagnare il brano di Petrolio riprodotto qui di seguito che indaga e descrive il pensiero di Carlo,
il personaggio principale di Petrolio, che sta riflettendo sui suoi
“appunti-memoriale”:
«[…] Avrebbe nominato solo alcuni aspetti o elementi di quel
qualcosa di innominabile che era il nuovo Potere reale: avrebbe
fatto cioè del nominalismo, magari a carattere e struttura liturgici.
Per esempio, a proposito dello sviluppo e del suo rapporto
col progresso, chiamato però prudentemente ‘sviluppo civile’,
ecco un brano dei suoi appunti di perfetta osservanza a un ‘cursus’
di carattere catechistico: […]
“Constatati i danni che derivano al paese dalla mancata connessione
tra programma di sviluppo civile e programma
economico, abbiamo tratto due conclusioni: primo, i partiti
che assumono la responsabilità del governo del paese debbono,
senza le impazienze dei tempi corti, cercare insieme
di definire l’ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un
programma di sviluppo civile, il quale deve avere per sommo
scopo l’espansione della personalità di ogni cittadino in
una società democratica ad alta partecipazione civica e con
forti vincoli comunitari, e di conseguenza non può essere un
programma a corto respiro. Secondo: in coerenza col programma
di sviluppo civile i partiti di governo debbono definire il programma economico. Constatate le manchevolezze
sinora registrate dalla politica di programmazione economica,
ne abbiamo dedotto, che essa oggi, utilizzando tutte le
risorse naturali, le capacità tecniche, le energie umane disponibili
– e quindi eliminando gli sprechi della inadeguata
ricerca, della fuga dei cervelli e di capitali, dell’emigrazione
– deve fissare le condizioni per un moderno equilibrato sviluppo…”
Dove il lettore è pregato di notare il valore eufemistico degli
ablativi assoluti (“Constatati i danni ecc.”, e “Constatate le
manchevolezze ecc.”). La dignità linguistica ‘ricalcata’ con spirito
notarile dal latino conferisce alla materia quell’ufficialità che
all’esame dei fatti indubbiamente manca loro nel modo più totale.
Fuori dall’ablativo assoluto, quei “danni” e quelle “manchevolezze”
sono [indubbiamente] criminali; dentro l’ablativo
assoluto invece si normalizzano, divengono momenti sia pur
deplorevoli di negatività necessaria o inevitabile. L’elemento
eufemistico del discorso diventa esplicito nelle espressioni “senza
le impazienze dei tempi corti” e “non può essere un programma
di corto respiro”. Cioè i fatti criminali possono essere
perpetrati ancora. Il lettore è pregato ancora di notare gli ‘elenchi’,
nel più squisito – quasi cantabile – cursus didascalico delle
liturgie: “definire l’ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un
programma di sviluppo civile”, “tutte le risorse naturali, le capacità
tecniche, le energie umane”, e infine “gli sprechi della
inadeguata ricerca, della fuga di cervelli e di capitali, dell’emigrazione”:
elenchi che hanno il potere liberatorio dell’“Atto di
dolore” pronunciato al confessionale, con voce monotona e ufficiale,
in quanto che, rendendo nominali i peccati compiuti nel
momento ‘codificato e ufficiale’ del pentimento, li vanifica: e li
vanifica, nella fattispecie, attraverso una tecnica mnemonica.
Ma soprattutto pregherei il lettore di meditare sulla grande trovata
consistente nell’invenzione dell’espressione governativa:
“programma di sviluppo civile”, a sostituire l’espressione tipica
invece delle sinistre: “progresso”. Qui c’è qualcosa di diabolico.
Ossia la fiducia quasi magica nel potere dei nomi, che nasconde:
primo, il carattere fascista di uno “sviluppo economico” non
includente il “progresso”; secondo, il cambiamento di tale carattere
fascista in quanto attuato appunto attraverso uno “sviluppo
economico” e non più attraverso la classica violenza conservatrice;
terzo, l’abbandono dei valori tradizionali simboleggiati
(e non certo solo platonicamente) dalla Chiesa, a vantaggio
dell’assunzione di nuovi valori (per esempio l’edonismo derivante
dallo “sviluppo economico”) che cambia la realtà del potere
da servire. Ma questi concetti nascosti non sono nominati
appunto perché lo stile di tale ‘esame di coscienza’ è perfettamente
e unicamente nominalistico!
[La liturgia continua ancora più] avanti, nel programma stilato
nel cuore del nostro democristiano nuovo, che, liberatosi da un
fascismo, non intende (a parole | almeno in parte!) cadere in
un fascismo nuovo, che è innominabile. Stavolta si tratta di un
‘esame di coscienza’ esercitato all’interno del proprio essere;
un”autocritica’ il cui oggetto è il ‘parassitismo’ che è un problema
esclusivamente tipico di chi è al potere: per comodità del
lettore traspongo la prosa nel suo reale schema di ‘cursus’ recitabile
secondo il modello dell’omelia, o del “Mistero”:
Il fenomeno del parassitismo riguarda tutti coloro che
di volta in volta,
in cambio di un determinato guadagno ricevono beni
o servizi che ne valgono assai meno,
o addirittura intascano senza ceder nulla e tutto ciò fanno:
o sfruttando particolari posizioni di monopolio
o quasi monopoliooooo,
o tempi difficiliiiii,
o altrui bisogni pressantiiiii
o ignoranza dei richiedentiiii,
o deficiente sorveglianza dei soprastantiiii,
o esecuzioni trasandateeeee,
o non rispetto di giorni e di orari di lavorooooo,
o pratiche fraudolenteeee…
A cui viene irresistibile di aggiungere il suggello, recitato [a
gran voce], di un “Aaaamen”, che retrodati definitivamente nella
formula del rito o nella [semincoscienza] mnemonica questo
(…) “Parassitismo”.
Idem più avanti: quando viene il momento di protestare la ferma
(ma non precipitosa) volontà di assicurare la continuità del
progresso economico, non disgiunto da quello civile:
Ma contemporaneamente va attuata una politica
anticongiunturale fatta di misure contro l’inflazione,
atte a ridurre la domanda non necessaria,
le voci di deterioramento della bilancia dei pagamenti,
l’esuberanza di mezzi monetari in circolazione,
la fuga di capitali,
le evasioni fiscali,
gli squilibri di bilanci pubblici –
e fatta altresì di misure per l’aumento o almeno la
conservazione del ritmo di produzione,
del livello di occupazione,
del volume di esportazioni,
con il controllo qualitativo e quantitativo del creditooooo,
con misure di incentivazione,
con la difesa della domanda proveniente
da ceti di bassi redditiiiii,
con agevolazione alla fornitura di prodotti
e di servizi per i mercati esteriiiii…
“Aaaaamen”. Il cursus della voce recitante i “Misteri” inclina qui
nettamente verso inflessioni di “Ritmi” goliardici, e il sentimento
del sacrilegio e del fescennino è incombente.
Ad ogni modo, his fretus, ossia col suo memoriale in tasca, (…)
Carlo fece la sua ricomparsa ufficiale in società in occasione
della Mostra dell’Automobile […]» [10].
La seconda citazione da Petrolio è di carattere prettamente socio- antropologico. Pasolini descrive le sensazioni provate e le riflessioni
formulate da Carlo, attore principale nel suo ultimo romanzo, che sta osservando una manifestazione fascista, che dà il
titolo all’Appunto 126:
«[…] Nessuno aveva mai detto – da parte del potere – la verità:
cioè che i nuovi valori erano i valori del superfluo, cosa che
rendeva superflue, e dunque disperate, le vite. Dunque, si fingeva
di non sapere. Carlo guardava quei fascisti che gli passavano
davanti. […] erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita
dell’angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille
lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in
saccoccia. Erano uomini incerti, grigi, impauriti. Nevrotici. I loro
visi erano tirati, storti e pallidi. I giovani avevano i capelli lunghi
di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche,
barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che
fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, [stupida] e
feroce, stringeva il cuore. Facevano pena, e niente è meno
afrodisiaco della pena. Il loro destino li chiamava a lavori pagati
meno peggio che nei decenni precedenti e a [week-end] un po’
più borghesi: quella manifestazione era un diversivo a tutto
questo. […]
In quelle facce di vecchi italiani imbellettati dal benessere, ciò
che non era nevrosi era volgarità: folte sopracciglia nere su occhi
bolsi, guance [pallide], grassezze repellenti e aggressive,
deretani da bestie da soma. […] Quella massa di gente sciamava
per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico,
anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi
senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento
stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [11].
Sulla presenza nel nostro paese dei fascisti, quelli di ieri e quelli di oggi, commentava tempo addietro il giornalista e scrittore Enrico
Campofreda: «La forza intuitiva dell’intellettuale [Pasolini] sta comunque nel- l’aver compreso meglio dei politici della Sinistra parlamentare
ed extraparlamentare che il Nuovo fascismo andava ben oltre le sigle e le pratiche degli stragisti legati al Msi. Il disegno organico
d’un Potere palese e occulto, democristiano e malavitoso e poi cangiante nelle formule politiche (centrosinistra e consociativo;
Caf; oggi forzitaliota-postfascista) è tuttora in corso.
All’interno di molti partiti non si sviluppa più una linea organica, magari con maggioranza e opposizione, bensì un disegno che
coinvolge trasversali affarismi e gestione del Potere. Non è qualunquistico affermare che personalismi e affarismo
più o meno celati esistono ormai ovunque e seppure fosse una questione personale nessuna Sinistra s’è liberata delle sue
“mele marce”. Nei partiti gli uomini degli “affari” e della gestione occulta del potere hanno la meglio sugli uomini della moralità. È questo il
Nuovo fascismo che Pasolini temeva e combatteva e che ha ordinato la sua atroce fine» [12].
Angela Molteni, Enigma Pasolini
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