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La ragione è forse molto semplice: sebbene con il trascorrere degli anni si sia elevato a stato di cult, perlomeno secondo l’opinione di ristrette schiere di fans, ciò che innegabilmente non possiamo dire di “Phantasm” è che sia, appunto, celebre. Avevo di ciò già un vago sospetto, lo devo ammettere. Sospetto che, nei giorni scorsi, mi si è tramutato in certezza leggendo i commenti che alcuni di voi hanno lasciato ai post precedenti. Le domande a questo punto sono due: 1) Cosa trasforma una serie horror in un cult universale? 2) Cosa è mancato a Phantasm per essere rimasto relegato ai confini dell’olimpo?
Ad entrambe le domande non ho una risposta, anche se è facile notare delle evidenti analogie tra i titoli citati in apertura: saghe horror come Halloween e Nightmare rientrano tutte nel sottogenere horror conosciuto come “slasher”, secondo le cui regole, precise e immodificabili, un inarrestabile villain mascherato (spesso orrendamente sfigurato) si diletta a far strage di adolescenti idioti poco inclini alla sopravvivenza. Gli slasher, per loro stessa natura, nascono già con la prospettiva della serializzazione: come ben sapete, infatti, il cattivone di turno, anche se ucciso, sbudellato, decapitato, tritato o maciullato, risorge inevitabilmente (e soprattutto inspiegabilmente) nell’ultima scena prima dei titoli di coda, preannunciando il proprio ritorno grossomodo nel giro di un anno (tanto quanto serve per raccogliere quattro soldi e produrre l’ennesimo sequel). È forse questa la chiave del successo? È solo questione di una… come dire… sapiente strategia di marketing?
Quando alla fine degli anni settanta il ventitreenne regista Don Coscarelli diede alla luce il primo “Phantasm” non c’era alcuna intenzione di realizzarne un seguito, sebbene il finale “aperto” possa lasciare più di un dubbio. Inoltre i temi che vengono affrontati in “Phantasm” non sono immediati e la loro presentazione sullo schermo, con quelle atmosfere claustrofobiche, oniriche e con alcuni ben dosati sprazzi di surrealismo, è tutto fuorché un viatico per il successo. Eppure il successo arrivò, sorprendendo per primo lo stesso regista. Forse arrivò addirittura per motivi diversi da quelli da lui immaginati, ma resta il fatto che quella che era una piccola autoproduzione si trasformò in un’elegante farfalla.
Ho usato il termine “onirico”, poco fa, sostanzialmente per due motivi: il primo motivo è che la genesi di “Phantasm” deriverebbe da un sogno dello stesso regista, un incubo in cui egli fuggiva lungo interminabili corridoi inseguito da una minacciosa sfera metallica. Il secondo motivo lo possiamo intuire guardando il risultato finale del suo lavoro, ovverossia un film ricco di incongruenze (ma quale sogno non lo è?), un film che miscela sapientemente (qualcuno direbbe maldestramente) diversi generi, un po’ horror, un po’ fantascienza, un po’ tante altre cose.
Come già accennato nel post precedente, la storia narrata da “Phantasm” vede come protagonista Mike (Michael Baldwin), un tredicenne insicuro che, dopo la morte dei genitori, vive con il fratello maggiore, Jody (Bill Thornbury). Un giorno, dopo aver assistito al funerale di un amico di famiglia, il giovane Mike si accorge che il becchino (Angus Scrimm), al termine della cerimonia, quando tutti si sono allontanati, anziché terminare di sotterrare la bara la carica nuovamente sul carro funebre e se la porta via. Ma quella “sottrazione di cadavere” non è l’unico aspetto inquietante della situazione: ciò che fa rabbrividire Mike è soprattutto il fatto che l’uomo abbia sollevato una cassa di due quintali da solo, senza il minimo sforzo.
Il ragazzo inizia una sua personale indagine e, sebbene deriso da Jody, con il quale aveva tentato di confidarsi, riesce a introdursi nottetempo nel cimitero alla ricerca di indizi da presentare all’incredulo fratello. Gli indizi non si faranno attendere: Mike, nel giro di pochi minuti, farà la conoscenza di alcuni sinistri nani incappucciati, di sfere metalliche volanti in grado di uccidere tramite lame retrattili che si piantano nei crani dei malcapitati, e naturalmente del “Tall Man”, questa inquietante figura-simbolo di tutta la saga, quel becchino, magistralmente interpretato dall’eterno Angus Scrimm, che aveva inquietato i sonni dell’ex-bambino che qui scrive.
Il film si immerge nelle paure più recondite dell’essere umano. Quel maestoso mausoleo che il Tall Man ha scelto come sua dimora terrena è veramente terrificante: i suoi lunghi e labirintici corridoi, rivestiti di marmo, sui cui lati si affacciano i loculi (quelli che noi chiamiamo colombari) di centinaia di esseri umani, e quella minacciosa sfera metallica che si aggira alla ricerca di vittime. Sarà proprio in questo scenario che Mike, Jody e il loro amico Reggie (Reggie Bannister) scopriranno il segreto che si cela dietro il Tall Man, una specie di custode infernale che preleva i cadaveri dalle loro sepolture e li trasforma in piccoli nani, peraltro molto simili a quelli, più noti, del quasi contemporaneo “Guerre Stellari” di George Lucas.
Laddove c’è un custode infernale non può mancare una porta, solo che in questo caso la porta è un passaggio spazio-temporale per un inferno completamente estraneo ai nostri soliti canoni: l’aldilà sembrerebbe invece una specie di pianeta alieno nel quale i nani vengono utilizzati come schiavi. Ho detto sembrerebbe perché a noi non è concesso che un solo fugace sguardo verso quel mondo ultraterreno.
Realtà? Fantasia? Sogno? Visione? Il finale del film non chiarisce tutti i punti. Si direbbe quasi che tutto non sia stato altro che un sogno. Mark si sveglia e si trova sulla tomba di Jody, anche lui forse morto tempo prima assieme ai genitori. Ma prima dei titoli di coda ecco un nuovo twist da far saltare sulla sedia. Il Tall Man ci sta aspettando? Sta aspettando noi tutti? “If this one doesn’t scare you, you’re already dead”, diceva la locandina nella hall del cinema. In italiano la frase era stata trasformata nel più banale “Se questo film non ti spaventa sei già morto”, scelta discutibile perché, a mio parere, se ho colto il pensiero di Coscarelli, non è il film ciò di cui bisogna avere paura.
Ho accennato poco fa a quell’incubo che innescò in Don Coscarelli l’idea di “Phantasm”: in seguito a quell’avvenimento il giovane regista si ritirò per diversi mesi nella solitudine di una baita in montagna lavorando a un soggetto che potesse svilupparsi da quell’idea di base e includere anche tutte quelle che erano le sue paure infantili, prima tra tutte la paura della morte: la decisione di ambientare “Phantasm” in un cimitero fu quasi naturale. Una volta realizzato il soggetto non restava che iniziare a girare ma, non disponendo di mezzi sufficienti, al nostro regista non restava che chiedere aiuto ad amici e parenti. Il padre, Donald Coscarelli Sr, racimolò il denaro necessario per la produzione e la madre, Kate Coscarelli, si occupò delle scenografie, del make-up e dei costumi. Per il ruolo dei protagonisti furono reclutati gli amici più cari di Don Coscarelli, tra i quali il già citato Reggie Bannister, che già lo aveva aiutato nei suoi primi esperimenti di regia.
Se avete visto Phantasm e lo avete giudicato una porcheria, girata male e recitata peggio, dove idee confuse mi intrecciano con soluzioni oscene, vi invito a riflettere: sarei io ancora qui a scriverne (e voi lì a leggerne) dopo ben 35 anni? Questo è tutto per oggi. Appuntamento alla prossima.
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