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Philip K. Dick: Androidi, Animali Elettrici e Scorie di Umanità

Creato il 21 settembre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Philip K. Dick: Androidi, Animali Elettrici e Scorie di Umanità

Appartiene sicuramente ai più bei regali che abbia mai ricevuto da un amico il romanzo di Philip K. Dick, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (nell’edizione Fanucci 2012, traduzione italiana di Riccardo Duranti, introduzione e cura di Carlo Pagetti), pubblicato per la prima volta nel 1968 e in Italia qualche anno dopo, nel ’71, con il titolo “Il cacciatore di androidi”. Considerato tra i meno celebri e apprezzati dallo stesso autore, e additato frettolosamente da alcuni critici come un vero “fallimento”, viene recuperato da Ridley Scott nel 1982 con “Blade Runner”, versione cinematografica che, pur distaccandosi parecchio dall’opera originaria e puntando molto su scelte estetiche accattivanti, sbanca letteralmente i botteghini. Così, quando ad anni di distanza dalla mia prima visione del film mi appresto a leggere il romanzo, scopro una versione nuova e ignota della storia luccicante, bagnata da incessanti piogge e pervasa da pubblicità con donne asiatiche che aveva raccontato il regista Scott. Probabilmente il suo lato più umano e malinconico. Perché la questione spinosa riguarda proprio l’umanità. L’ultima guerra mondiale, scoppiata per chissà quale motivo (nessuno se ne ricorda più), ha trasformato la Terra in una landa desolata dalla quale è scomparsa quasi ogni forma di vita, ormai del tutto inospitale. L’ONU aveva incoraggiato in ogni modo l’emigrazione, offrendo come incentivo il diritto al possesso di un androide, adoperato come servo. Per i pochi terrestri ancora residenti sul pianeta, la vita è tutt’altro che rosea: una coltre di polvere radioattiva (la stessa che aveva causato la morte degli animali) copre il cielo come un’immensa nube grigia dalla quale non filtra la luce del sole.

una immagine di Philip K. Dick 1928 1982 620x520 su Philip K. Dick: Androidi, Animali Elettrici e Scorie di Umanità

Uno scenario devastato e devastante che ciò nonostante attira gruppi di androidi, che la sognano come terra promessa, vedendo nella fuga una possibilità di riscatto e l’unica chance per la libertà. Ma per evitare che gli androidi si mescolino agli esseri umani, il Ministero della Giustizia ha incaricato degli agenti di polizia di scoprire e ritirare (un’abile figura retorica utilizzata per nascondere la vera attività dei cacciatori di taglie) gli androidi illegalmente arrivati nel pianeta Terra. Lo strumento che permetteva di identificare i replicanti, il test Voigt-Kampff, dichiarava nulla la loro facoltà empatica. Ma può uno strumento scientifico dimostrarsi sempre valido nel valutare l’empatia e quindi l’umanità di un essere (umano o androide)? Ed ecco tornare in gioco il tema principale del romanzo. Perché, in effetti, cos’è che ci contraddistingue come esseri umani? La facoltà non solo di provare emozioni, ma anche e soprattutto di condividere ed entrare in sintonia con quelle altrui, percependole come nostre: ciò che in sostanza definisce l’umanità come insieme, come comunità appunto perché accomunata. Eppure, ironia della sorte, nel distopico futuro ideato da Dick, gli uomini per evitare le emozioni negative ed in generale continuare a interagire emotivamente tra di loro, hanno bisogno di un modulatore d’umore, una macchina che programma le emozioni. Senza di esso, senza il frastuono delle tv perennemente accese, quello che si percepisce è il vuoto, l’assenza di vita in un pianeta senza speranza.

una immagine di Ledizione Fanucci di Ma gli androidi sognano pecore elettriche uscita nel 2010 su Philip K. Dick: Androidi, Animali Elettrici e Scorie di Umanità

Così durante l’intensa giornata in cui si concentra la vicenda narrata in “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, nella mente del cacciatore di taglie Rick Deckard cominciano ad affollarsi interrogativi. La sua stessa identità viene messa in discussione varie volte: uno degli androidi che è incaricato di ritirare, lo accusa di essere egli stesso una macchina omicida. Il romanzo di Dick rappresenta dunque un estremo ma neanche troppo lontano futuro, in cui alle emozioni vere e spontanee si sostituiscono dei surrogati preconfezionati, perché nell’intensa ed estenuante conquista di territori e ricchezza, il nostro pianeta si è man mano svuotato di quasi tutte le sue forme di vita. Emblematico il tema degli animali, così rari quelli veri sopravvissuti alle radiazioni nucleari da essere diventati uno status symbol, e la produzione di copie artificiali è un vano tentativo per sopperire alla loro mancanza. Quello che infatti sembra accomunare i robot umanoidi agli animali elettrici è la loro creazione, utile a compensare l’assenza di creature vere, e l’uomo, sempre più solo ed isolato, in “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” ne ha di bisogno per sopportare la sua magra esistenza. C’è da chiedersi se quello che nel 1968 veniva presentato come cupa fantascienza non stia diventando sempre più amara realtà, dove il culto dell’oggetto tecnologico e l’identità liquida ci stanno gradatamente portando a una società alienata in cui il più intenso rapporto che riusciamo a stabilire è quello col nostro cellulare. Da qui alla costruzione di animali elettronici e umanoidi da compagnia non c’è grande distanza.


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