Cos’è l’esperienza dell’arte se non il massimo grado di piacere estetico, intellettuale e sensoriale? Ebbene, forse il professor Kepesh ha fatto la più grande esperienza artistica che si possa immaginare. Cosa c’è, infatti, di più intimo della propria “fisica” trasformazione in arte? Certo, in effetti, risulta assai difficile valutare come esperienza artistica la metamorfosi di un uomo in una perfetta ghiandola mammaria di 70 Kg, nonostante sia, ad un certo punto, lui stesso ad affermare: “E questa è la mia grande opera d’arte!”. Su questa scia sembra portarci Philip Roth, autore del racconto “Il seno”. Tale ipotesi interpretativa ci viene suggerita dallo stesso protagonista, che in conclusione cita “Torso arcaico di Apollo”, poesia di Rainer Maria Rilke, scritta a Parigi nel 1908. Ma per comprendere è necessario fornire qualche elemento in più. Nella poesia, Rilke descrive la sua impressione nell’ammirare il busto della statua apollinea conservata al Louvre. La descrive come portatrice di un senso superiore, ancora più alto proprio perché mutilata; e da questa mancanza fa trasparire tutta la sua forza evocativa. Essa può vedere l’intera vita dell’osservatore e in funzione di questo profondo legame, a cui non si può restare indifferenti, bisogna cambiare la propria esistenza: Rilke volge il motto, situato sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, “conosci te stesso”, in “muta la tua vita”. Riporta così l’attenzione sulla continua evoluzione dell’essere che l’uomo non può pretendere di capire, ma, limitandosi ad aderirvi, può vivere e sentire dentro di sé. Ecco che l’esperienza del nostro professore di lettere fa vivere in maniera concreta la posizione intellettuale del poeta: il Kepesh/uomo, intellettuale chiuso nel suo mondo letterario corredato da una relazione tranquilla e appagante, cede il posto al Kepesh/mammella, dai sensi più sviluppati, decisamente più emotivo e quasi ritornato allo stato primordiale del sentire. In effetti, tralasciando il non trascurabile shock, quella in cui si trova il protagonista è una posizione assai privilegiata: avendo le conoscenze e l’intelligenza di un colto trentottenne, imprigionate in un “corpo” più sensitivo che mai, si ritroverebbe nella posizione ideale per assaporare e concepire il mondo e l’essere irrazionale meglio di chiunque altro.
Ma credo che queste potrebbero essere le conseguenze di anni e anni passati a convivere con questa condizione, e di ciò l’autore non ne parla. Intanto possiamo accontentarci di sapere come tutto è iniziato, e come il professor Kepesh ha reagito. Certo non è stato facile. In primo luogo perché, divenuto manchevole della vista e della possibilità motoria, si ritrova costretto su un letto d’ospedale, nutrito con una flebo e con l’udito assai ridotto, per non parlare della facoltà di parlare, resa minima. Tutto ciò in contrasto con il notevole aumento della sensibilità tattile. Quest’ultima lo condurrà ad una crisi che riuscirà a superare non senza fatica. Fortunatamente viene sostenuto da un padre affettuoso e da una compagna assai concreta e dolce, la quale continuerà sempre a prendersi cura di lui. Intanto il protagonista cerca di ritrovare i contatti con il mondo e rintraccia il suo illustre mentore per stabilire le modalità per continuare a mantenere i rapporti lavorativi con l’università; ma l’incontro non va come dovrebbe e si innesca una seconda crisi, tutta psicologica, fatta di paranoie e fissazioni che dovrà combattere con l’aiuto del suo psicologo: il dottor Klinger. Costui invita il paziente a rimanere ragionevole e cerca di fargli accettare la sua nuova esistenza da mammella. Cosa per niente semplice. In conclusione, ecco che si ritorna alla poesia di Rilke, introdotta dalle seguenti parole: “avanti con la nostra cultura una volta per tutte”. E forse potrebbe essere proprio la cultura, la chiave per vedere in maniera “ragionevole” (come pretende il dottore) la sua posizione, il punto di svolta grazie al quale trovare un senso al suo assurdo caso. Ma in che modo? Beh, questo proprio non lo so. In realtà sono proprio contenta che sia una storia del tutto inventata con base metaforica, perché la realtà del fatto sarebbe a dir poco sconvolgente e non plausibile di riflessioni così “fredde”. Pertanto ringrazio Philip Roth per la piacevole e scorrevole lettura di questo testo così fantasioso che lascia di certo il sorriso sulle labbra e tante questioni per la testa.