La copertina di Everyman di Philip Roth (nell’edizione Einaudi 2008, traduzione italiana di Vincenzo Mantovani) è nera. Una compatta e inquietante eleganza nera. Fai scorrere le poche pagine che compongono questo libretto e i tuoi occhi zigzagano impazziti carpendo poche parole ben distinte – e ancora ignori che quelle parole andranno a comporre una parabola esistenziale. Non ci sarebbe poi da meravigliarsi se, squadernando le pagine al contrario, queste si rivelassero tutte bianche, uno sconcertante candore bianco. Del resto, la storia di un uomo, che poi è, appunto, ogni uomo, svanisce in quel lunghissimo istante che è l’ultimo commiato dalla vita – al di là di qualsiasi credenza in un prosieguo oltremondano. Tutto il resto, è nulla. Roth ce lo fa assaporare fin dall’inizio, questo nulla: la terza parola della prima pagina è fossa, e, a seguire, la descrizione di un ordinario rito funebre. Un buon inizio, come si suol dire. Quasi non ti accorgi di venire rapito dalla fluidità di un racconto a ritroso, come un fermo immagine da cui parte un rewind dettato dall’esigenza di ricomporre quel tutto che la morte frantuma.
Roth non si stacca mai dall’obiettivo, porta avanti fino al punto più estremo il suo crudele progetto di porre in atto un essere che già è solo più non-essere, come un demiurgo ordinatore di fili che si intrecciano senza mai aggrovigliarsi in modo inestricabile. La morte, semplice e lineare, non ha nulla di tragico, ma si colloca, come ultimo tassello, in un mosaico fatto di matrimoni e divorzi, amori improvvisati, tradizioni ebraiche, oggetti venduti e pubblicizzati, passioni a cui appigliarsi quando ormai senti che non ti è rimasta più nessuna certezza, nemmeno la tua famiglia, nemmeno la tua salute. La malattia sembra l’asse portante di tutta questa perfetta impalcatura costruita senza il minimo sforzo; una malattia intermittente, ma sempre più debilitante, che, in questo romanzo come nella vita di ognuno, assume le fattezze della grande demistificatrice per eccellenza, la nera signora che, oltre alla falce, porta con sé lo specchio in cui costringe a osservarti nelle conseguenze di ciò che sei stato. La vita scorre, la storia, al di fuori di everyman, scorre ancora più imperterrita, ed è la storia di un’America colpita nel profondo che alza la testa e reagisce. Roth lascia trapelare la necessità di vivere la vita cogliendone il senso di instabilità, perché in essa si annida la morte, e un’occasione lasciata è veramente persa, quando sei sopravvissuto a troppi interventi chirurgici e il fatalismo non è la tua principale filosofia.
A poco valgono, poi, i rimpianti e i rimorsi, ognuno di noi lo sa bene; ma «quest’uomo in genere pacato ora si batteva furiosamente il pugno sul cuore come un fanatico immerso nella preghiera e, assalito dai rimorsi non soltanto per questo errore ma per tutti i suoi errori, tutti gli stupidi, inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso – travolto dalla miseria dei suoi limiti, ma comportandosi come se tutte le incomprensibili contingenze della vita fossero opera sua», quest’uomo, ecco, al momento di effettuare un bilancio del bene e del male dato e ricevuto, crolla di fronte a se stesso, non reggendo il confronto con l’obbligato esame di coscienza. Il rischio c’è, nel gioco della vita – e forse Roth vuole comunicarci proprio questo attraverso la sua magnifica prosa: il rischio di ritrovarsi a fare i conti con il proprio fallimento nel momento di maggior debolezza, quello della solitudine, cornice di ogni uomo che abbraccia il nulla eterno.