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Parlare di questo libro è difficile, ma la voglia di farlo è ancora più forte, succede che se ne senta talmente tanto la mancanza da non vedere l’ora di tornare a casa per continuarne la lettura. Non voglio dire nulla sui protagonisti e sulla trama, perché sono già perfetti così, basta leggerlo. Quello che però mi spinge a scrivere queste righe è l’immagine che Roth ci offre dell’America e dei suoi abitanti, sui suoi contrasti e sulle due grandi macchie che da sempre hanno sporcato l’immagine del suo impero, la violenza e il razzismo. Vivere negli Stati Uniti è come essere seduti su una bomba innescata, sperando che non scoppi mai. Il rapporto che hanno gli americani con la guerra è endemico e la ferita che brucia ancora è il Vietnam (uno dei protagonisti del libro), che è stato in parte esorcizzato dal vaccino più banale e “americano” che ci sia, il senso di colpa. Il libro è ambientato nella sonnacchiosa provincia del Nord Est degli anni sessanta/settanta, dove l’autore rappresenta la società occidentale anglosassone come qualcosa di abbietto, con il suo profumo di uova al bacon e di torta di mele, tutto mischiato con classismo e perbenismo. Questo scenario ideale è ormai in declino e non serve a nulla battersi o lottare, perché i tempi cambiano e qualcuno resterà indietro e come spesso accade, questi mutamenti saranno digeriti a prezzo di molta sofferenza. Ma questa è l’America, quella dei pionieri prima e degli immigrati poi. Chi si ferma è perduto, ma in certi casi si è perduti anche se si corre a perdifiato. Oggi è il destino della classe media americana e a pensarci bene anche della nostra. Philip Roth parla di un mondo in crisi d’identità. Il declino vero non è quello economico, ma quello morale e umano, dove tutto è il contrario di tutto e tutto quello che non deve accadere accade con conseguenze peggiori di quanto si possa immaginare. E’ un romanzo terribile, che apre porte che sarebbe meglio lasciare socchiuse, che ci catapulta in fondo a baratri profondi e minacciosi, lasciandoci soli con la nostra ansia. Questo è un libro che una volta finito di leggere, non lo si mette a posto, lo si tiene a portata di mano per essere sicuri che sia solo immaginazione e che la nostra vita continui uguale a prima, come il sospiro di sollievo che ci conforta dopo un brutto incubo. Da leggere in lingua originale per godere a fondo della prosa e dei contenuti di Roth, oggi forse il più grande scrittore americano, da anni papabile per il Nobel alla letteratura. Per chi come me l’ha letto in italiano, non è proprio leggero e a volte bisogna sforzarsi di avere pazienza, per il suo periodare lungo e a tratti impegnativo. Per dovere di cronaca mi sembra giusto segnalare che l’autore Philip Roth, nasce a Newark (New Jersey) nel trenta tre da famiglia ebrea comunista e la maggior parte dei suoi scritti sono ambientati lì. Ha recentemente dichiarato, all’età di ottant’anni, di non voler più scrivere romanzi. Pastorale americana (premio Pulitzer nel novanta sette) “Ho sposato un comunista”, “La macchia umana” hanno come io narrante Nathan Zuckerman, alter ego dello autore, che in altri romanzi appare sotto forma di protagonista.
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