La fine che arriva come una liberazione.
In seguito a più di 4 ore iskanoviane fino all’ultimo fotogramma, vedere i titoli di coda rappresenta il nastro di arrivo dopo una maratona faticosissima ed estenuante, un vero e proprio martirio spettatoriale costellato da continue e vomitevoli atrocità intervallate da segmenti documentaristici, in particolare immagini di repertorio.
La porzione temporale horror-drammaturgizzata è la decade compresa fra il 1936 e il1945, l’area geografica, invece, risponde alla regione cinese della Manciuria e nello specifico alla cittadina di Pingfang. Qui il generale Ishii Shiro, l’uomo a capo dell’Unità 731, condusse per conto dell’esercito giapponese abominevoli esperimenti sulla popolazione e su prigionieri di guerra. Ufficialmente lo scopo dell’Unità 731 era quello di fungere da laboratorio in grado di studiare o prevenire epidemie ed effettuare ricerche per munirsi di armi biologiche atte a contaminare coltivazioni e/o sorgenti. Ma sono i metodi utilizzati all’interno di questo complesso infernale ad essere passati alla Storia come crimini contro l’umanità.
Uomini, donne e bambini ridotti a cavie sulle quali gli sgherri di Shiro infierirono con inimmaginabile violenza. Per farvi un’idea di ciò che accadde lì dentro ci sono due possibilità: la prima, più soft, è quella di leggere il dettagliato elenco di torture riportate da Wikipedia (link), la seconda, decisamente più stomachevole, è quella di guardare questo film.[1]
Dal curriculum di Andrey Iskanov non ci si poteva attendere nient’altro che un’opera così: annichilente. Nelle due precedenti aveva dato prova di avere un importante gusto per l’eccesso, raffazzonato e limitato, ma comunque personale. Va da sé che alle prese con un orrore vero, e quindi infinitamente più doloroso di qualunque rappresentazione, anche il suo cinema tenta di assumere una prospettiva più realistica e per questo motivo viene abbandonato il caleidoscopico tourbillon di colori che finora lo aveva caratterizzato in favore di un tetsuoiano bianco e nero derivante dalla prima mezz’ora di Nails (2003). Il passo avanti di Iskanov sta nel fatto che oltre alla fiction egli fornisce una ramificazione stile documentario che si alterna alle parti recitate. I dettagli storici corredati da immagini e filmati d’epoca si accompagnano all’inquietante testimonianza di un vecchio uomo russo che vide con i suoi occhi quel micro-olocausto. Purtroppo però è inevitabile ammettere che queste sezioni sono quelle meglio riuscite dell’intera pellicola perché questo regista rimane pur sempre un regista low-budget e un progetto così grande appare fin da subito fuori dalla sua portata.
Gli ambienti dei laboratori ricreati sono ben poco credibili, per non parlare del tallone di Achille rappresentato dagli attori: sia il carnefice (un giapponese fuori ruolo) che le vittime (delle modelle in un servizio fotografico di Vogue) stridono nettamente con le fotografie vere proposte all’interno del montaggio nelle quali si possono intravedere tutte quelle componenti che fanno di un uomo un prigioniero. E tali caratteristiche negli oppressi di Iskanov non si rintracciano minimamente.
L’autore si concentra perciò sulle torture dilatando i momenti di sadismo oltre le soglie del tollerabile fino a giungere alle placide sommità della noia. Ovviamente, tenendo sempre presente lo spirito artigianale dell’autore, gli SFX non sono di prim’ordine e potrebbero scoraggiare ulteriormente l’intrepido spettatore. Nel marasma schizzato sangue segnalo i supplizi che più mi hanno convinto e disgustato: un’estrazione completa delle arcate dentarie tramite tenaglia da fabbro, l’inserimento di uno scarafaggio all’interno di una vagina, la scarnificazione di una testa stile Martyrs (2008), le secchiate d’acqua fredda ad un ragazzo nudo nella neve, e l’impossibile passeggiata di un moderno Elephant Man.
L’interrogativo che alla fine sorge è: perché vedere Philosophy of a Knife? Perché usare 4 ore e passa della propria Vita per assistere ad un elogio della Morte? No, le motivazioni storiche non bastano, venire a conoscenza dell’Unità 731 può essere utile per avere ancora meno fiducia nella nostra razza, ma di per sé non giustifica la visione del film. Iskanov è andato oltre i fatti, oltre la denuncia e oltre il ricordo, ci ha presentato il Male svelandone la sua pericolosissima essenza: alla fine, dopo ogni tipo di angheria, di sopruso e di sevizia, è subentrata la tremenda sensazione che tutto ciò fosse spaventosamente banale.
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[1] Ce n’è anche una terza, ovvero vedere l’altro film tratto da questi tristi fatti: Men Behind the Sun (1988).