I Phish sono stati una delle più grandi band in circolazione, e questo, assieme al fatto che i loro dischi sono abitualmente scrigni ad orologeria che si aprono solo nel tempo e negli ascolti, mi rende impegnativo il compito di scrivere questi appunti di ascolto.
Se per molto pubblico italiano i Phish furono solo una bizzarria, e di certo nella loro originalità si sono tenuti sempre distanti tanto dal maistream che da ogni logica di music biz, negli anni novanta sono stati i migliori, assieme alla DMB, rappresentanti di quella corrente che io definisco groove, assieme a Blues Traveler, Spin Doctor, moe e Widespread Panic. Una metafora che amo usare (e che come tutte le metafore vale per quello che vale) è quella dei Beatles e Rolling Stones: Phish e DMB negli anni novanta erano i miei Beatles e Rolling Stones.
Al pari di jam band come i Grateful Dead, i Phish prendono quota nel live show, che diventa una fonte inesauribile di invenzioni e di sorprese; la band è arrivata ad organizzare un proprio personale festival in cui era l'unico gruppo in cartellone. Al contrario gli album in studio sono stati a lungo solo un contenitore dei semi delle proprie canzoni, fino a che negli anni novanta diedero alle stampe un paio di lavori particolarmente curati, come Billy Breathes (prodotto da Steve Lillywhite) e Farmhouse. Già Round Room nel 2002 denunciava uno stop creativo che preannunciava lo scioglimento del gruppo nel 2004.
Seguirono quattro anni di iato, nel corso dei quali il chitarrista Trey Anastasio si gettò in ogni genere di progetto con un furore zappiano, che però a conti fatti si limitava a denunciare un esaurimento della creatività. Meglio fece il bassista Mike Gordon, che si limitò ad una collaborazione di basso profilo ma deliziosa con il virtuoso della chitarra Leo Kottke, mentre il tastierista Page McConnell realizzò un album artigianale di buona fattura, in cui si pesava (inevitabilmente) la mancanza dell'irresistibile sezione ritmica della band.
Il risultato è che nel 2008 il gruppo tornò assieme e ricominciò a tenere ininterrottamente concerti in lungo ed in largo per gli States per il proprio devoto pubblico, i phish-heads. Se i redivivi Phish siano al livello dei precedenti non posso dire, perché nonostante lo desideri ardentemente non ho avuto la fortuna di assistere ad alcuno dei loro concerti (di cui sul sito sono comunque in vendita regolarmente le registrazioni, ma non è la stessa cosa).
Nel 2009 si ripresentarono anche con un pessimo album, intitolato Joy, che conteneva una suite di 13 minuti dal titolo Time Turns Elastic che pareva ispirata ai dischi degli Emerson Lake & Palmer.
I Phish fanno ritorno oggi, mi verrebbe da dire "a sorpresa", ma temo che la descrizione più appropriato sarebbe "nell'indifferenza del mondo", con il dodicesimo capitolo della loro discografia, quando ormai erano in pochi a farci conto.
Non è facile elaborare in tempo utile per una recensione un parere sul disco di un gruppo che fa dell'invenzione la propria forza: si rischia di cercare conferme in suoni già sentiti e sottovalutare quanto c'è di nuovo. Ma insomma, al netto di una mezza dozzina di ascolti, com'è questo Fuego del 2014, composto con molta attenzione collettivamente dal gruppo nel corso di un ritiro nel nativo Vermont, e registrato addirittura in quel di Nashville per la produzione ricca di aspettative di classifica di un volpone come Bob Ezrin, che già ha diretto Peter Gabriel come i Pink Floyd?
Temo di dover rispondere: né bello, né brutto. Inutile (che viste le circostanze è forse il peggio che potesse capitare).
Il disco si apre nel modo peggiore, con i dieci minuti di Fuego, che richiamano alla mente gli orrori di Time Turns Elastic. Una suita fredda gelida che si apre con delle note alla Pink Floyd e si intrappola in un complicato arrangiamento che evoca il tardo prog di Relayer (Yes) e Brian Salad Surgery (EL&P). Una fissa di Anastasio, temo.
Il successivo The Line è un pezzo qualsiasi, altrettanto algido, che pure evoca di nuovo i cori dei recenti Yes.
Quando ti domandi che ne è stato del funky alla Meters che tanto ci ha fatto amare il quartetto, arriva la brillante e scanzonata Devotion To A Dream, una ballata di Anastasio con dei bei cori che comunque sanno di già sentito e risentito, ed un assolo di chitarra. Di certo un buon brano per il live show.
Halfway to the Moon del tastierista McConnel è leggero e carino. Resta da decidere se "carino" è un complimento o un'offesa.
Da qui in avanti si apre il portale del tempo e i brani successivi, ariosi, agili, simpatici, potrebbero arrivare da qualsiasi disco del gruppo. Winterqueen è abbellito da una inedita sezione orchestrale di fiati. Sing Monica è addirittura bella, nei suoi cori beat.
555 è la mia canzone preferita, recupera un po' del soul di Memphis che ha spesso riscaldato il sound del gruppo. Waiting All Night è una bella ballata. Wombat è una pregevole invenzione alla Talking Heads (un gruppo coverizzato dai nostri). Wingsuit (quarto brano del disco ad iniziare con un W) è una ballate lenta che fa da elegante commiato.
Alla fine, cosa manca? Un po' di anima, direbbe l'ascoltatore severo, un po' di sud, un po' di voodoo, un po' di furore. Che ne è stato di John Fishman, ci si domanda, è sempre lui ad essere seduto al rullante?
Nella sua interezza Fuego è un disco da fan, o addirittura da nerd. Io magari mi masterizzo un CD per l'autoradio lasciando fuori i primi due brani.
I Phish non hanno più un peso sulla scena rock contemporanea, ma il furore di certo arriverà nei concerti. Che mi auguro di riuscire a vedere, prima o poi. Li invitiamo al Pistoia Blues Festival?