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Pianeti interni? Cresciuti a suon di sassolini

Creato il 27 ottobre 2015 da Media Inaf
Terra e Marte a confronto. Crediti per le immagini: NASA/JPL/MSSS

Terra e Marte a confronto. Crediti per le immagini: NASA/JPL/MSSS

Hal Levinson, planetologo del Southwest Research Institute in Colorado (USA) e il suo team tornano alla ribalta con un nuovo studio sui processi di formazione del Sistema solare. Qualche mese fa un loro lavoro, pubblicato su Nature, presentava i risultati di simulazioni che ricostruivano piuttosto bene la costituzione dei pianeti del Sistema solare esterno e le loro attuali orbite. Ora gli scienziati si sono concentrati nel simulare cosa è avvenuto nelle prime decine di milioni di anni della zona più interna del nostro Sistema planetario, concentrandosi in particolar modo sull’evoluzione di Terra, Venere e Marte.

Le simulazioni in particolare sembrano riuscire a superare uno dei problemi che hanno afflitto finora i tentativi di ricostruire numericamente la formazione di Marte, che possiede una massa pari ad appena il dieci per cento di quella della Terra. I modelli finora utilizzati, basati su processi di accrescimento progressivo, fornivano buoni risultati per il nostro Pianeta e Venere, ma non per il Pianeta rosso, che alla fine del processo arrivava ad avere masse comparabili se non superiori alla Terra. E i problemi non finivano qui: anche la massa complessiva dei corpi che popolano la fascia degli asteroidi risultava troppo alta rispetto alla realtà.

«Capire perché Marte è più piccolo di quanto atteso dalle simulazioni è stato un grosso problema che ci ha accompagnato per decenni» commenta Levison. «Con il nostro lavoro, abbiamo una soluzione che nasce direttamente dallo stesso processo di formazione planetaria». I nuovi calcoli realizzati dal team, tutto composto da ricercatori del Southwest Research Institute, tracciano la crescita e l’evoluzione di un sistema di pianeti. Essi evidenziano che la struttura del Sistema solare interno è in realtà il risultato diretto di una modalità di accrescimento planetario denominata Viscously Stirred Pebble Accretion, VSPA (che potrebbe essere tradotto più o meno come “accrescimento tramite ciottoli agitati viscosamente”). Il processo VSPA fa condensare la polvere planetaria fino a dare origine a “sassolini” di qualche centimetro di diametro, alcuni dei quali si aggregano ulteriormente sotto la reciproca attrazione gravitazionale, per formare oggetti delle dimensioni degli asteroidi. Con le giuste condizioni, questi asteroidi primordiali possono inglobare efficacemente altri ciottoli, attirati su di essi da fenomeni di attrito aerodinamico. Il processo descritto è in grado, secondo i ricercatori, di far crescere alcuni asteroidi a dimensioni planetarie e in tempi relativamente brevi.

Tuttavia, questi nuovi modelli evidenziano anche il fatto che non tutti gli asteroidi primordiali si trovavano nelle giuste posizioni per catturare nuovi ciottoli e crescere di dimensioni. Ad esempio, un oggetto delle dimensioni di Cerere (che possiede un diametro di circa 1.000 chilometri), il più grande tra gli asteroidi della Fascia principale, sarebbe cresciuto molto rapidamente se si fosse venuto a trovare in prossimità dell’attuale orbita della Terra. Ma non sarebbe stato in grado di acquistare massa in modo efficace se invece si fosse trovato in prossimità della posizione odierna di Marte, o anche oltre, perché in quella zona la resistenza aerodinamica è troppo debole per per consentire in modo efficiente la cattura di ciottoli da parte di oggetti celesti medio-grandi.

«Questo significa che pochissimi sassolini si scontrano tra loro nella zona dove oggi transita Marte. Il che fornisce una logica spiegazione del perché questo pianeta sia così piccolo», aggiunge Ketherine Kretke. «Analogamente, la simulazione indica che gli impatti tra ciottoli sono stati ancor più rari nella fascia degli asteroidi, restituendo così una massa complessiva altrettanto piccola e in linea con le nostre attuali misure. Insomma, le posizioni dove oggi si trovano la Terra e Venere sono stati gli unici posti dove la crescita planetaria è risultata davvero efficiente».

«Una delle domande da sempre più dibattute tra i planetologi è se i processi che hanno portato alla formazione del Sistema solare siano un’eccezione o la regola anche per tutti gli altri sistemi planetari finora scoperti» commenta Diego Turrini, planetologo dell’INAF-IAPS di Roma. «Negli ultimi anni il dibattito è spaziato su tutte le classi di corpi planetari, dai più piccoli asteroidi ai pianeti giganti, e il confronto con i pianeti extrasolari ha portato allo sviluppo di modelli che spiegano il nostro Sistema solare come il risultato di processi violenti e caotici anziché quelli più regolari e continui considerati dai modelli precedenti. In particolare, è stato proposto che la piccola taglia di Marte rispetto agli altri pianeti rocciosi come la Terra e Venere, finora spiegata come un semplice risultato causale del processo di formazione, sia invece il prodotto di grandi migrazioni primordiali dei pianeti giganti, che avrebbero sistematicamente sottratto al giovane pianeta rosso il materiale necessario per la sua crescita.
Il lavoro di Levison e colleghi riporta la palla al centro nello “scontro” tra il quadro descritto dai vecchi modelli e da quelli più recenti, mostrando come sia possibile spiegare il nostro Sistema solare come il risultato naturale del processo di formazione planetaria, senza bisogno di invocare necessariamente eventi catastrofici e violenti. Secondo i risultati di Levison e colleghi, infatti, la piccola taglia di Marte può essere spiegata semplicemente come una eredità della distanza dal Sole cui il giovane Pianeta rosso si sarebbe formato».

Per saperne di più:

  • l’articolo Growing the terrestrial planets from the gradual accumulation of sub-meter sized objects di Harold F. Levison, Katherine A. Kretke, Kevin Walsh, William Bottke, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani


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