Ogni volta se ne ha una conferma eppure continuiamo a girarci intorno: se un cinema italiano nuovo, rifondato dovesse nascere, se l’Italia dovesse tornare a far la voce grossa nelle sale di tutto il mondo sarà superando definitivamente la contrapposizione finzione – documentario, e mescolando i temi, gli stilemi, gli scopi di entrambi.
Alessando Rossetto fa parte di questa nuova speranza, con Piccola patria vi entra prepotentemente.
Le tecniche dell’uno e dell’altro mondo non sono per lui solo strumenti presi a servizio per creare un’opera contenitore, sono bensì gli oggetti stessi della sua riflessione, indagando sul modo in cui possono, fondendosi, creare una forma nuova.
Il bello è che a leggere la trama (due ragazze a cui la periferia veneta sta stretta cercano di raccogliere soldi per evadere, lo fanno con ogni mezzo fino alla prostituzione e al ricatto, tra il silenzio e l’incapacità di comunicazione familiare) ci si potrebbe ritrovare davanti qualsiasi tipo di film, ed è quello che si chiede all’arte cinematografica ed in generale: non condurre lo spettatore lì dove conosce alla perfezione ciò che lo circonda, ma portarlo là dove non può aspettarsi nulla.
Piccola patria in particolare si struttura come una tragedia insoluta, dove i personaggi sono soggetti antropologici, rappresentanti di dinamiche sociali più che individui. Vengono lasciati interagire, come fosse un esperimento, su un terreno saturo di contrasti : città e campagna, immigrati e fieri autoctoni, tradizione e decostruzione postmoderna, innocenza e peccato, pubblico e privato, rispettabilità di facciata e interiorità mascherate. E nulla è superfluo, tutto da sostanza al film.
La fotografia e la scenografia rappresentano e non creano. Ogni ambiente, ogni inquadratura è così come deve essere, così come è, ma tale scelta non ha lo scopo, proprio del documentario, di documentare l’ambiente, di registrare una commistione storica tra uomo, natura e società. L’ambiente è tale perché è il più naturale, il più neutro per l’azione dei personaggi, quello a loro più conforme, che non li forza in una direzione, ma, come detto in precedenza, li lascia agire.
Una formulazione simile riguarda la lingua dei personaggi e, scelta azzeccatissima, quella della colonna sonora, entrambe in puro dialetto. Come spiegato nelle interviste al cast, sulla lingua vi è stata una ricerca profonda, sopratutto con l’obiettivo di creare un dialetto il più possibile omogeneo e verosimile. Il risultato eccelle, in primo luogo se si considerano i risvolti sulle dinamiche del film: è l’unico elemento che lega tutti i personaggi, per altri versi decisamente diversificati e contrapposti. Come può allora un ambiente così ristretto e chiuso (una piccola patria appunto) tirare fuori tanti tasselli talmente disgiunti?
È questo forse il cuore dell’opera, un’opera politica come ha detto Rossetto ( io credo nel senso letterale del termine, da non confondendersi col politicizzato, nonostante gli accenni a certi secessionismi veneti e padani, che in film collocati con tanto realismo in tali luoghi sono inevitabili), un’opera di ricerca antropologica ed insieme cinematografica.
Nella conferenza stampa di Venezia 70, dove è stato presentato, si è parlato di un film senza speranza, contraddistinto da un tono drammatico, da un realismo quasi cattivo e qualcuno ha anche accennato ad una prima parte “che non prende”, facendo riferimento a narrazione, trama, coinvolgimento. Io credo non siano questi i termini, le categorie con cui analizzare un film del genere. E forse, azzardo dirlo, non dovrebbero essere i termini principali attraverso cui collocare e studiare il cinema odierno. Rossetto qui non vuole né tirare fuori una morale (l’intento tipico di ogni narrazione propriamente detta) né intrattenere, il suo è un intento puramente cinematografico: uno studio sulle capacità di indagine degli strumenti del cinema.
La sceneggiatura, ad esempio, è una bozza su cui l’improvvisazione agisce pesantemente (e la naturalezza ne guadagna molto), ma è un’improvvisazione controllata, guidata dalla mano registica che qui si intuisce maggiormente, si svela. Grazie a ciò i personaggi assumono il ruolo principe dell’opera: sono le loro caratterizzazioni, i loro spostamenti a dipingere il quadro. E se il punto di vista è decentrato verso Luisa non abbiamo un vero è proprio protagonista, anzi possiamo dire che protagonisti sono i contrasti, attorno ai quali i personaggi agiscono.
Infatti l’opera è strutturata in modo da presentare, nei primi quaranta minuti circa, tutte le dinamiche in gioco, poi Rossetto mescola sapientemente il tutto fino a presentare la possibile evasione (la fuga in moto, la festa di paese), per poi tornare al luogo di partenza, dal quale non si può scappare anche per l’integrità umana che Luisa va scoprendo, dove la violenza, unica reazione\azione possibile in un ambiente talmente scarno, inetto, immobile, è sempre lì per esplodere. E la violenza stessa, con l’impeto con cui vien fuori sullo schermo e la tensione che genera, stringe tutte le fila, fa convergere tutta la trama fin lì tessuta, sintetizza nella pistola puntata nel finale tutti i contrasti messi in gioco.
Quindi non sono i personaggi a fare il film, ma le loro azioni. Per come ci muoviamo, per gli intenti in effetti non siamo lontanissimi (eppure son passati quasi tre quarti di secolo) dall’allora audace La regle de jeu di Renoir. Certo il contesto è completamente differente, ma oggi come lo si faceva allora dovremmo porci la domanda “Cos’è il cinema?”. E il progetto di Rossetto non credo sia così lontano dall’intento.
Il colpo può esplodere, ma non sullo schermo, esplode nello spettatore che con Piccola patria torna ad assistere ad un nuovo esempio, un nuovo manifesto del nuovo cinema italiano, che mostra la testa, la tira fuori, ma non mette mai il piede a terra. Quanti esempi di simile bellezza ci vorranno ancora? Quanto ancora questa piccola patria di idee, autori, intenzioni resterà sommersa nella grande patria?