Piccola sindrome di Stoccolma

Creato il 25 dicembre 2011 da Ilibri

Lo sto aspettando.
Quest’anno, finalmente, festeggeremo insieme il Natale. Mi è stato confermato, lo libereranno.
Lo sto attendendo, qui fuori. La porta della sua prigione si spalancherà e lui uscirà verso la libertà, che io mi impegno a garantirgli.
Spero di saper guarire le sue ferite, anche quelle più profonde e invisibili. Quelle più difficili da rimarginare.
Il mio amore dovrà vincere una sfida difficile.
Dovrò tamponare le coltellate che ha ricevuto e ricucire il suo animo saccheggiato. Riconquistandolo al desiderio di vivere.

Fra poco sarò restituito al mondo.
Non vorrei rimpiangere il buio.
L’idea della luce mi atterrisce.La gente oggi assisterà alla mia liberazione.
Io sono confuso, stordito.
Le mie paure, in questo drammatico momento che precede il mio ritorno alla vita, emergono con potenza.
La prolungata prigionia alla quale sono stato relegato per tanto tempo ha inciso profondamente: sul mio animo, sulle mie abitudini.
Durante le lunghe giornate del mio carcere forzato, ho soffocato il desiderio di libertà che inizialmente avvertivo. Al punto che oggi sono angosciato dal vuoto che si spalanca dinnanzi a me.
Forse soffro di una piccola sindrome di Stoccolma.
Sarà che la paura per il futuro oggi prende il sopravvento.

So che per chi è stato vittima di un sequestro prolungato, il ritorno alla vita ‘normale’ è la cosa più difficile.
So che spesso il sequestrato soffre della sindrome di Stoccolma, perché il mondo nel quale è costretto a vivere talvolta diventa una realtà così totalizzante che annienta ogni istinto di ribellione. E’ un meccanismo di difesa. Consiste nel normalizzare una condizione insostenibile, per affrontarla quotidianamente. Come se una condizione disperata di vita fosse un fatto del tutto ordinario.

E’ irrazionale. Di fronte a me avevo un futuro di morte certa. Il mio presente era fatto di violenze e soprusi. Vivevo in un ambiente sporco e maleodorante. Ultimamente mi esprimevo soltanto con lamenti. Eppure oggi ho paura per quello che mi aspetta e oppongo resistenza a una liberazione che mi costringerà ad affrontare l’incertezza più totale.

Il piazzale è presidiato dalle forze dell’ordine. Gli agenti hanno un bel da fare a trattenere la folla che qui è accorsa.
La notizia della sua scarcerazione si è propagata nell’etere, diffusa da giornali, radio e televisioni, che qui hanno collocato inviati e fotografi, incaricati di redigere réportage e articoli.
La moltitudine è impaziente, vuole festeggiare un evento che tutti hanno auspicato.
E questo è bello, perché testimonia che il sentire comune respinge questo vile reato e ogni forma di violenza esercitata da un individuo su di un altro.

Nel buio della mia cella, quotidianamente attendevo il momento in cui i miei carcerieri mi avrebbero elargito cibo e acqua, in quantità minima a garantirmi la sopravvivenza. Quella fisiologica, visto che il mio animo ha subito traumi che hanno annientato la mia personalità e la mia volontà. Al punto che sentivo, a modo mio, di amare chi mi maltrattava. Le loro visite scandivano il fluire del tempo e rappresentavano l’unico elemento di novità in un’inerzia prolungata e indifferenziata. Quella delle mie giornate.

Nel buio della mia prigione, li attendevo e oramai li riconoscevo dall’odore. Sentivo il loro passo. Si avvicinavano e mi gettavano la fonte del mio sostentamento senza un gesto di affetto o di simpatia. Magari mi insultavano, se mi avvicinavo troppo o se cercavo una qualsiasi forma di contatto.

La porta sta per aprirsi.
La luce investirà i suoi occhi accecati dalle tenebre.
Chissà come reagirà alla mia vista. Saprà individuarmi?

Ecco, hanno aperto la porta.
Improvvisamente vengo investito dal chiarore del sole. Non riesco a sostenerne la violenza, forse sto provando lo stesso orrore che si prova alla nascita, quando di colpo si passa dalla tranquillità protetta del sacco al frastuono della vita.

Eccolo lì, l’amore mio.
Finalmente libero.
Cercherò di ridargli fiducia e tenterò di fargli dimenticare i patimenti che ha subito. Cucirò le lacerazioni che gli hanno arrecato. Saprò fargli dimenticare tutto quello che ha dovuto subire.
Chissà se mi riconoscerà in mezzo a questa folla assiepata sullo spiazzo erboso.

Mi avvio con camminata incerta, quasi barcollando.
Un passo, mi fermo, un altro passo, mi fermo ancora. Indugio un altro istante. Nel mio incedere dubbioso trasfondo tutto il mio sconcerto. E il sentimento che predomina è soltanto uno, uno soltanto. Si chiama paura. O peggio ancora: terrore.

E’ ancora bello, di una bellezza morbida, anche se messa a dura prova. E’ denutrito, sul corpo reca i segni inequivocabili della crudeltà umana. Ed è così stordito dall’esplosione della vita e dell’entusiasmo che lo sta accogliendo!

Che bella ragazza! Non la conosco, eppure so che è lei la persona che mi aiuterà, se non a dimenticare, ad attenuare la mia sofferenza. Ha un sorriso caldo, come non ne ho mai visti …
Mi tufferò in un’altra forma di protezione, questa volta più benevola ed affettuosa.

Con un cenno del capo, il funzionario che sovrintende alla sicurezza pubblica mi fa capire che posso avvicinarmi. Lo faccio con prudenza, con dolcezza. Lui solleva lo sguardo verso di me. Mi ha riconosciuto con la forza dell’istinto, sa che sarò io la persona che cercherà di restituirlo alla vita.Con cautela lo accarezzo. Lui uggiola timidamente. Forse è un pianto struggente. Forse è riconoscenza. Forse non è né l’uno né l’altro ed é soltanto un’espressione naturale. Perché Bob è uno dei tanti beagle che sono stati segregati nel canile lager ove vengono allevati i cuccioli destinati alla vivisezione e alla sperimentazione farmaceutica.

 

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