Piccole medie imprese

Da Loredana V. @lorysmart

L’asse portante dell’economia e del lavoro in Italia passa dalle piccole medie imprese che rappresentano la massima espressione della libera iniziativa.

Ditte con un ridotto numero di dipendenti, radicate sul territorio, specialmente nel Nord-est, ma estese anche in altre parti, spesso a gestione familiare, dove i figli continuano la tradizionale attività dei padri o dei nonni, ma anche nate dal “sogno” di qualcuno che voleva dimostrare di farcela da solo a costruire qualcosa.

Piccole medie imprese, dalle botteghe artigiane alle aziende agricole, dalle officine alle tipiche “fabbrichette” (che costituiscono a volte l’indotto delle grandi realtà industriali o che lavorano in conto terzi per i grandi marchi che alla fine ci mettono solo la firma), oppresse da tasse e imposte, vessate da una burocrazia assurda che occupa gran parte del tempo che potrebbe essere dedicato ad attività produttive o che obbliga il datore di lavoro a ricorrere ad appositi consulenti, naturalmente a pagamento, leggi che regolamentano di tutto e di più, dallo smaltimento dei rifiuti al sacrosanto diritto alla sicurezza sul lavoro, inclusa la misurazione dello stress. Già, perché viene misurato lo stress del dipendente, ma chi considera lo stress dell’imprenditore? Cioè della persona che ci mette il capitale, il lavoro e pure la faccia? Che non ha ferie pagate e neppure i periodi di malattia? Chi considera le sue le sue ansie quando, angustiato dai conti in rosso per i mancati pagamenti di fornitori (specialmente della pubblica amministrazione che salda i debiti in tempi biblici) sente la responsabilità non solo della sua azienda, ma anche quella dei suoi dipendenti che, in queste piccole realtà, diventano quasi una seconda famiglia, e si vede costretto a metterli in cassa integrazione o, peggio, a licenziarli? Ed ecco allora che il bottegaio, il concessionario, il padrone della fabbrichetta non regge più a questo peso e sceglie la via del suidicio, schiacciato più che dalla responsabilità, dal senso di impotenza nei confronti di uno Stato che, invece di favorirlo, lo massacra con cartelle esattoriali che, se rateizzzate, hanno tassi semplicemente da usura.

La differenza sostanziale tra la grande impresa e la piccola è che la prima, se i tempi si fanno duri, può sempre delocalizzare e trasferire l’attività in paesi dove il costo del lavoro ed il carico fiscale sono meno opprimenti che in Italia, mentre la piccola impresa è legata al territorio. Inoltre la grande impresa, specie se multinazionale, differenzia i propri campi di azione, che spaziano dall’industria all’editoria, dall’alimentare all’edilizia, mentre la PMI ha solo quel tipo di attività e, se il mercato va male, non le rimane che chiudere.

Infine le banche concedono credito più facilmente alla grande impresa perché sanno che, di riffa o di raffa, si spera sempre nell’intervento dello Stato per ripianare il “rosso”, mentre il piccolo imprenditore è letteralmente abbandonato a se stesso.

Solo quando lo stato capirà il ruolo trainante di queste piccole realtà che creano lavoro ed occupazione e quindi ricchezza, quando comprenderà che vanno loro concessi crediti ed agevolazioni, quando riconoscerà che gli sforzi dei privati vanno premiati e non ostacolati, solo allora l’Italia riprenderà a crescere.



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