PICCOLE MEMORIE, di GLG, marzo 2013

Creato il 22 marzo 2013 da Conflittiestrategie

1. Ho riletto la sintetica ricostruzione di alcuni eventi italiani fatta qualche tempo fa da fourfive19 e nella sostanza mi pare corretta nei passaggi. Ci sono alcuni insulti diretti, personali, null’affatto gratuiti, che forse è meglio inviare collettivamente alla sedicente “sinistra”, costituita da chi rinnegò il comunismo e lo schieramento internazionale precedente, superando in senso atlantico gli stessi Brandt e Schmidt, i socialdemocratici tedeschi (in specie il primo) fautori dell’ostpolitik. Dire che i “piddini” sono (per la maggior parte) rinnegati del comunismo è solo constatare un fatto di “cambio d’idea”, non una semplice offesa. Vorrei comunque aggiungere qualche altra piccola memoria a quanto detto da fourfive. Diciamo che racconterò qualche storiella. Cercherò di farlo con la massima freddezza e distacco. Solo avverto il lettore che non userò il condizionale pur se, tuttavia, si tratta certo in molti casi di intuizioni tratte secondo il metodo “indiziario”. Non starò a distinguere ciò che è a me noto, sia direttamente che per interposte persone (molto credibili), da ciò che ho arguito, spesso in anni di attento ripensamento di quanto vissuto e sentito. Racconterò come si racconta un romanzetto e cadrò talvolta nell’imprecisione seguendo le associazioni di idee (e fatti) che mi verranno via via in mente.

2. Da un punto debbo pur cominciare la mia “sbrodolatura”. E allora inizierò proprio da quando il PCI prese la strada del cambio di campo. Prima, però, qualche premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su Nuovi Argomenti nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS e ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci, in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti in quanto marxisti, quando si parla di Hitler folle o appunto criminale e si ricostruisce la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quella che mi sembrava un’antipatica ambiguità. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”; sic!) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito. E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per vero (almeno ancora per qualche mese).

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič, perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal PCUS, dopo alterna vicenda: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo comitato centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque con il krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la rivoluzione culturale; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (del mondo), si precisò la rottura fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), con l’atteggiamento ondivago di Krusciov e poi il cedimento “imbarazzante”. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. Frequentai anche abbondantemente “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. (in questo eccetera stanno molti contatti interessanti anche dal punto di vista “pratico”). Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi esempi.

3. Passarono gli anni, morì nel ‘62 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), nel ‘63 fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto). Venni a conoscenza solo dopo qualche anno (pochi comunque) di quanto si mise in moto già a quell’epoca, in cui vi fu l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci, ivi compresi i “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. A fine anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e Usa; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso l’ovest. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969, quando Berlinguer divenne vicesegretario.

In quegli anni sembravano in effetti maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Allora, l’avversario principale (quello più “revisionista”), nell’ambito del piciismo, sembrava appunto il gruppo amendoliano. In effetti, questo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non proprio errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo, con un gruppo dominante ristretto e privo di qualsiasi controllo, tutto dedito ad oscure lotte intestine. Vi era nel PCI una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai (ovviamente) attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e di linea politica. Gli “amendoliani” erano comunque saldamente contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati, a ragione, i più filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, oscillanti tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del Manifesto).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fa parte, come messo in luce da fourfive, l’ormai fu amendoliano Napolitano e la “sinistra” ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca procede con più sicurezza, e nel contempo prudenza; viene via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che maschera tale processo e cerca di dare dignità al rinnegamento dei vecchi principi e schieramento internazionale.

4. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (mentre veniva ucciso in Bolivia il Che, in pratica quasi un suicidio, dopo la sconfitta da lui subita a Cuba e la sua sostanziale emarginazione per gli errori compiuti in quanto ministro dell’economia, errori dovuti alla credenza che contasse soprattutto il “fattore uomo” con annesso “entusiasmo rivoluzionario”). Il colpo di Stato è chiaramente appoggiato dagli Usa, mentre vede contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti destri in Italia e qualcuno ebbe paura di effettivi colpi di Stato qui da noi (il cui unico “risultato” fu il gustoso film di Monicelli Vogliamo i colonnelli). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del “campo socialista”. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro “campo capitalistico” sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto delle forti probabilità di crisi del regime greco e quindi tramavano sotto traccia con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il partito comunista dell’interno, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nel PCI, nella parte berlingueriana (eurocomunismo certamente visto con diffidenza da buona parte dei settori di questo partito, quelli considerati di destra, di tipo socialdemocratico).

Fu durante quel periodo che si produsse l’inizio (almeno così si può arguire) dei colloqui tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di Nuova Democrazia, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato. In quegli anni (precisamente nel 1971), ebbi modo di venire coinvolto “di striscio” nella vicenda e mi sarei perfino dovuto recare in Grecia per motivi vari. Non se ne fece nulla, ma il fatto mi servì ad afferrare – non subito, solo in seguito agli avvenimenti (anche in Italia) degli anni immediatamente successivi e averci riflettuto sopra per un bel po’ – lo “slittamento” piciista, che al momento nemmeno sospettai. Nemmeno compresi  subito come prendesse avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa di Berlinguer alla segreteria del partito nel 1972, fondamentale per il successo di certi colloqui con gli “ambienti statunitensi” di cui sopra. Insomma, il regime militare greco fu in un certo senso “galeotto” nel corroborare l’azione di mutamento di campo degli “eurocomunisti”, PCI in testa e al comando dell’operazione.

5. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone la massima parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto. Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito gli Usa.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere gli ambienti contrari negli Usa; contrari per modo di dire, appunto pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri.

Il Pci – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua ufficialità: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti (è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future). Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su Rinascita) un lungo articolo di Berlinguer (segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli Usa; però…..

Il però era un’apparentemente “togliattiana” valutazione intrisa di realpolitik, che taluni vollero apparentare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dall’evitare la fine dei comunisti greci; fine, lo si scorda sempre, che avvenne nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi. La sconfitta fu soprattutto d’origine politica in seguito alla rottura tra Tito e Stalin, comportante la cessazione degli aiuti dati ai compagni greci dagli jugoslavi (geograficamente vicini), che ostacolarono pure la possibilità di aiuti dall’Urss, la quale fece poi sostituire Markos (notevole capo militare) con il “molle” Zachariadis al comando delle truppe comuniste con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine e decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con apparente buon senso, ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava per lui almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto eurocomunismo, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, della togliattiana “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (non solo quindi in Grecia, ma in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti”) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (anche come struttura sociale interna) e che dunque si preparano cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu poi il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire, lo ammetto.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori che favorivano l’avvicinamento agli statunitensi fossero in sostanza guidati da Cossiga. Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere posizioni di contrasto con gli Usa. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di rivelare i contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso, mitigando la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

Tornando indietro, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra partito berlingueriano e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione americana. Per quanto posso capire, penso fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti fece come al solito il furbo che si destreggia; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri. All’inizio degli anni ’70, il Psi faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il Pci; e anche la direzione di tale partito prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose (per Dc e Psi) manovre del Pci berlingueriano di avvicinamento agli Usa.

Nel ’76 vi è però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’antifascismo del tradimento, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta lotta di liberazione in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga, l’80% di quell’evento storico (limitato al nord Italia o poco più quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana) fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carte (e carteggi). La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi ebbero il coraggio di opporsi al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole. Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la riabilitazione atlantica del Pci. L’antifascismo del tradimento – lanciato fra l’altro con Repubblica (giornale non a caso uscito proprio nel 1976) – fece dimenticare badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “giustizia e libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), e ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, dalla Fiat e l’Olivetti, dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori”.

Quell’antifascismo del tradimento attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia (e ciò, alla fine, li perdette). E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo antifascismo è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo l’Italia dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per decenni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra” berlusconiana, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio.

6. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un importante presidente americano, fatto fuori dall’Fbi con il Watergate (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; per quanto concerne la coesione all’interno e il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito (con gli alti dirigenti dei grandi Kombinat, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali) con gli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati, trattati ancora da mitica Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella transizione al socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dall’ingegnere e dal manovale” – aveva fatto distinzione tra lavoro semplice e complesso, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) superiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’operaio combinato di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso strategico. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una apparente unità del Pcus, ben lungi invece dall’esistere.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali “intermedi” – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico, di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola (o barzelletta, non so) del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se partecipe di film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella formazione sociale, definita del tutto cervelloticamente di transizione. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto “pre-Gorbaciov” con l’elezione a segretario del Pcus di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio cercò perfino di mettere zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC) furono felicemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò con Eltsin, cominciò a risalire, ma ormai da posizioni assai compromesse, con Primakov e infine si rinsaldò parzialmente con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

Dopo la cacciata di Krusciov, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, tenevano perfino contatti con l’eurocomunismo o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Erano strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto. Queste correnti tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie, e (solo apparentemente) padrone assolute dei partiti (dal Pcus ai partiti dei “satelliti”), non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, giungendo perfino a promuovere esse stesse compromessi con gli Usa e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno d’esso: sia imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con alcuni partiti politici euro-occidentali, pur apertamente schierati in senso atlantico, sia con quelle frazioni, interne ai partiti comunisti del “campo capitalistico”, rimaste fedeli al “socialismo” e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo. E soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli Usa e trasformandolo nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel Pci sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialemente, la fronda “gruppuscolare”, quella fintasi quasi maoista (quelli del Manifesto, tanto per intenderci, che salvo lodevoli ma rare eccezioni erano i più “corrotti” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo). Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli “anni di piombo”.

7. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (e pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, Lavoro politico (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava Nuova Unità e che di fatto controllava le Edizioni Oriente, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68, subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente i mesi estivi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una Nuova nuova Unità, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di Lavoro politico fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza, poiché ho visto proprio in un commento nel nostro blog una notizia destituita di fondamento, che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì – sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai) – e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo programmatico (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata (per cui questa sicuramente, se non la ritrovo io, non è più reperibile). Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato (e mi auguro abbastanza bene, giacché molto tempo è passato) è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (Usa) e “socialimperialismo” (Urss); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. La seconda previsione, su cui ho ricordi più imprecisi, è quella di un altrettanto probabile prossimo colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi un paio d’anni prima in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito); il che presupponeva il ripetersi di un quadro simile a quello della seconda guerra mondiale: conflitto tra i “due gruppi di banditi imperialisti”, mentre la Cina avrebbe assunto un ruolo simile a quello dell’Urss negli anni ‘30, in quanto bastione e appoggio a tutti i “nuovi rivoluzionari” (anticapitalisti e non semplicemente antimperialisti).

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) di tale formazione sociale, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo d’antan. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 e al ’91 sovietico dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica; e tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, pressoché al 100%, di uno scontro mondiale tra le “due superpotenze” (in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva).

8. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interrompere momentaneamente questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina, in continuo aggravamento – un aggravamento che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 (con il viaggio nixoniano a Pechino), poiché occorreva prepararla, e senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite Watergate, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una netta presa sul Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo pure a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male con le difficoltà di Nixon; e tuttavia implicanti il ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud e successiva sconfitta e conquista di Saigon (aprile 1975) da parte dei vietcong e truppe nord vietnamite. Il Vietnam riunito si schierò apertamente con l’Urss ed entro in conflitto (perfino una breve guerra nel ’79) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” (quello centrato sull’Urss); e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. E immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” del blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato tuttavia apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti (se non appunto come sintomo del “non perfetto” allineamento cino-albanese), gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della Nato di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo” (e non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, questione a tutt’oggi non risolta, avvolta com’è nelle fumisterie ideologiche di un’epoca ormai al tramonto e tuttavia ancora influente nelle sue credenze antiquate, vera dimostrazione del famoso detto: “le mort saisit le vif”). Un’Urss forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino non determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (“accumulazione originaria”), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centro del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando fu posta in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti e dei vietcong contro il gigante statunitense, l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc. Tuttavia, un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la politica, sanno come si conduce, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno hanno il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne hanno sentore, ma secondo quanto hanno deciso di far sapere (e credere) loro i vari “servizi”, che sono una delle nervature cruciali della politica, quella seria e non fatta di chiacchiere a ruota libera.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est si comprendevano le debolezze dell’“area” e i pericoli che correva. E all’ovest pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il Pci (con i vertici in mano alla nuova maggioranza berlingueriana), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno del partito) a simili approcci di quest’ultimo verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo ci fosse consapevolezza delle manovre eurocomuniste. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo).

Fu quindi del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che in qualche misura si opponevano al Pci berlingueriano: chi perché appunto leninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque favorevole da una ostpolitik (insomma, critico e tuttavia alleato dell’Urss e contrario alla potenza statunitense) e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del Pci sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona “leva” per l’avanzata del Pci lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione netta favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio di Napolitano nel 1978, e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a DDR e Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del Pci nel suo spostamento a ovest. Qui si dovrà però procedere proprio a tentoni (almeno io). Rinvio quindi la discussione ad una prossima puntata (non so quanto lunga).

(C O N T I N UA )


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