Per molti di coloro che hanno vissuto l'infanzia negli anni ’90, la collezione di libri “Piccoli Brividi”, partorita dalla penna dello scrittore R. L. Stine, rappresenta il primo, vero, volontario approccio con la lettura. Un approccio facilitato da una scrittura semplice e da caratteri grandi, da copertine brillanti stampate in rilievo, numerate e da collezionare e una tematica horror intrigante e tentatrice, per milioni di bambini appassionati del genere, ancora impreparati a fare sul serio.
Nel suo piccolo quindi, Stine, riuscì sapientemente a ritagliarsi una fetta di mercato ben specifica, vendendo migliaia e migliaia di copie e meritandosi la realizzazione di una serie televisiva dal nome omonimo della collana, una serie in cui quelle stesse storie venivano adattate in live action, mantenendo lo stesso grado di soft-horror che aveva costituito la loro immensa fortuna su carta stampata.
Fedeltà che, al contrario, al cinema evapora completamente nella pellicola diretta da Rob Letterman, il quale, per ridare vita ad un marchio ormai spento da anni, si butta direttamente sulla commedia fantasy per ragazzi, rinunciando a creare un ibrido di genere orrorifico, probabilmente perché poco contestualizzabile a livello cinematografico. Si affida così all'usato sicuro firmato Jack Black, chiamato questa volta a funzionare più da collante che da mattatore, in mezzo ad un trio di adolescenti su cui spiccano i volti di Dylan Minnette e Odeya Rush, col terzo incomodo di Ryan Lee, caratterista alle prime armi volenteroso di giocarsi al meglio le sue carte. L'intento è quello di costruire un coming-of-age delineato e scolastico, che onora il franchise di "Piccoli Brividi" solamente per quel che concerne la maturazione (e la crescita) del personaggio, quella che in questo caso funziona a doppio livello, implicando sia la figura del giovane orfano di padre, sia quella di Black, alias Stine, in collera con il mondo intero. Di brividi, dunque, nemmeno l'ombra, sebbene Slappy, l'alter ego di Stine (doppiato da Black, ovviamente), dall'alto della sua estetica poteva farsi carico del lavoro sporco ed agire come l'Annabelle di turno, piuttosto che come Chucky, riesumando, magari, lo stesso filtro preso in considerazione dalla serie tv e provando a sollecitare quei brividi piccoli (ma andava bene anche piccolissimi) promessi dal titolo, senza andare incontro ad una censura VM14.
Ma forse era un lavoro troppo rischioso, meglio andare sul velluto e puntare all'avventura spettacolare, ricca di effetti speciali e (teoricamente) risate, adagiata su uno sfondo strabordante di mostri indomabili che dovrebbe compensare attraverso la quantità la loro mancata attitudine a spaventare e ad innalzare tensione. Una coperta, la suddetta, che sicuramente Letterman conosce sotto ogni cucitura, parzialmente funzionante in quei "I Fantastici Viaggi di Gulliver" di qualche anno fa, ma che purtroppo stavolta fatica a tenere in piedi l'identità di un lavoro che, tolto qualche siparietto comico (come quello in cui vengono tessute le lodi di Stephen King per stuzzicare l'invidia di Stine) e qualche intuizione registica (la scena al supermercato), non riesce a imbastire alcuna motivazione che possa giustificarne scopo, universo e apparizione.
Un po' lo stesso discorso che vale per Jack Black e il suo ritorno: attesissimo per chi ama l'attore dai tempi di "School Of Rock" e, di conseguenza, deludente considerata la potenza della sua vena comica e la gestione che questo "Piccoli Brividi" decide di farne.
Deludente allora sotto ogni punto di vista, la versione in grande stile dei racconti di R. L. Stine non fa altro che confermare quanto la fortuna del loro autore dipendesse dal raggio d'azione e dal campo contenuto su cui aveva deciso di andare a muoversi e a praticare.
Che piaccia o no, del resto, ai piani superiori ci sono concorrenti più efficaci, quelli che per quanto a lui possano dar fastidio, o fare invidia, hanno dimostrato con la loro inventiva di prestarsi al grande schermo con maggior naturalezza e maggiori esiti.
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