È finita, ne sono uscito. Finalmente. Gli ultimi tre mesi li ho dedicati in gran parte a documentarmi sulla narrativa apocalittica, leggendo approfonditamente, annotando e a volte solo sfogliando una quantità enorme di romanzi sul tema. E la cosa mi ha provato, non solo perché la letteratura apocalittica ha come danno collaterale – quando non come obiettivo – quello di suscitare angoscia e pessimismo, ma anche perché di libri davvero riusciti ne ho incrociati pochi. Finisce che quello che mi è piaciuto di più è l’unico che puntava tutto sull’intrattenimento. Perché Un buon posto per morire, di Tullio Avoledo e Davide Boosta Dileo – sì, quello dei Subsonica, chissà quante volte glie lo ripetono, povero lui! – è un pasticcio ipercalorico che mette insieme profezie Maya e quartine di Nostradamus; delirio nazista e complotto sionista; ambientazioni reali e fantastiche, esotiche e iperlocali; spionaggio e controspionaggio; scienza e fantascienza; azione, avventura e un tocco di rosa. Con un segreto: quando sai di voler fare un pasticcio, come in questo caso, difficilmente viene male; è quando non era nelle tue intenzioni che diventa irrecuperabile. Avoledo e Dileo giocano con gli stereotipi, accumulandoli, facendoli cozzare e parodiandoli a seconda delle necessità e, nonostante qualche inevitabile caduta, riescono a strappare, con le loro trovate fantasmagoriche, una divertita ammirazione. Poi ci sono le parabole – più o meno riuscite, ma tutte a mio avviso ugualmente evitabili – come La fine del mondo storto di Mauro Corona, vendutissimo romanzo – anche se è difficile chiamarlo così, visto che è privo di personaggi – sciatto e ripetitivo, Muori Milano Muori di Gianni Miraglia, ambientata in una notevole e allucinata città a pezzi alle soglie dell’Expo 2015, ma incapace di spingersi tanto più in là, Nina dei lupi di Alessandro Bertante, un po’ troppo già vista, L’uomo verticale di Davide Longo, una scrittura notevole sprecata nell’indurre, con successo, un mare d’angoscia. O le cupe atmosfere di una distopia – l’utopia al contrario – come La seconda mezzanotte di Antonio Scurati, grande sforzo visionario costruito intorno a una Venezia del 2092 ridotta sotto una cupola di vetro, come i souvenir, e teatro di rinate lotte tra i gladiatori, che mantiene meno di quanto promette. O persino l’incrocio tra thriller e divulgazione scientifica tentato da Bruno Arpaia con L’energia del vuoto e riuscito a metà, forse proprio quella che al pubblico interessa di meno, ovvero la parte sulla fisica nucleare. Resta una domanda di fondo: possibile che in Italia non ci sia nessuno che sfoderi l’ironia dissacrante di Arto Paasilinna e della sua Allegra apocalisse? Non è che l’abbia amato del tutto, ma un po’ di leggerezza non guasterebbe anche da noi.