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“La causa principale della raccomandazione, in Italia, è proprio quella che ha messo in risalto il direttore generale dell’Aler: funziona. Nella pratica, non c’è un giudizio diffuso che sia di sincera condanna. Anzi, a molti sembra un sistema di vita che ha una sua efficienza“: così inizia l’interessante articolo di Francesco Piccolo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa.
Un sistema, sottolinea Piccolo, che inizia fin dalla nascita, dividendo da subito i cittadini di un Paese democratico in “Serie A” e “Serie B”. “Una comunità dovrebbe invece basarsi sul contrario“, sottolinea Piccolo: “cercare cioè di ottenere il meglio per tutti. La raccomandazione invece distribuisce disparità, e come conseguenza crea sfiducia nella neutralità“. Fino alla rivelazione finale: “la vita italiana, nella sostanza, è modellata sull’ossessione che si ha in provincia. Lì, non conta cosa vuoi fare, ma quante persone conosci“.
Un’analisi illuminante, che sottolinea una volta di più quanto il nostro sia un Paese provinciale nella testa delle persone, che non ha mai davvero saputo emanciparsi da quella visione limitata al proprio piccolo spicchio di appartenenza. Alla propria cerchia di influenze.
Un Paese che non ha mai davvero saputo farsi sistema, autocondannandosi al declino. Stupisce che ciò avvenga, in una nazione così ricca di intelligenza e creatività. Nonché di capitale umano di qualità superiore alla media. E’ ovvio che chi ha una visione aperta, globale e meritocratica della vita debba -giocoforza- emigrare verso Paesi meno provinciali e più evoluti.
Mi ha molto colpito leggere le previsioni a lungo periodo dell’Ocse sull’Italia. Che impongono una riflessione, una volta per tutte, su cosa vogliamo fare, per garantire un futuro migliore alle nuove generazioni di questo Paese. Quantomeno alternativo alla fuga: l’Ocse stima una crescita nana del Pil italiano, al ritmo dell’1,4% annuo. Migliore solamente di altri due Paesi vecchi come e più del nostro, Germania e Giappone. Il nostro Pil passerà dall’attuale 2,8% su base mondiale all’1,4% nel 2060. La metà. La nostra influenza a livello planetario diverrà ancora più risibile e insignificante.
A determinare questo ritmo così lento sarà soprattutto il drammatico invecchiamento della popolazione: nel 2030 gli ultra65enni della Penisola saranno il 40% della popolazione, vent’anni dopo si avvicineranno al 60%. Il doppio, rispetto ad oggi.
Il declino è nei numeri, c’è poco da fare. L’unica molla di riscatto sarà ridisegnare il Paese, consegnandone le leve di potere a giovani altamente istruiti e con esperienza internazionale, escludendo dalle poltrone una classe dirigente fallimentare. Ancora una volta, i numeri sono impietosi: secondo l’Eurispes, quattro potenti su cinque in Italia hanno oltre 50 anni, i giovani under 35 rappresentano solo il 3% (!!!) dell’intera classe dirigente. Sette su dieci di questi giovani non lavorano in politica o nelle imprese… ma nello sport!
L’indagine, peraltro molto simile ad altre già realizzate in passato (la dimostrazione che in questo Paese non cambia mai nulla, al di là delle parole..), fa luce su un aspetto inedito: ben il 91,1% della classe dirigente italiana risiede nel Paese, solo l’8,9% all’estero. La dimostrazione plateale dell’incapacità italiana di rendere i propri talenti -soprattutto quelli espatriati- classe dirigente del Paese. Unico dato positivo: in 20 anni il livello di istruzione della classe dirigente italiana è cresciuto del 20%. Ma non è sufficiente, ovviamente.
Il tutto mentre un’intera generazione di giovani -dati Bankitalia alla mano- rifiuta gli stereotipi troppo frettolosamente “affibbiati” da qualche Ministro: altro che schizzinosi, un quarto dei neolaureati nell’ultimo triennio ha un’occupazione con bassa o nessuna qualifica, un terzo invece svolge mansioni diverse rispetto all’ambito di laurea. Il tasso di “overeducation”, a sopresa, è più altro al Centro e al NordEst, rispetto a NordOvest e Mezzogiorno.
Molti altri scappano da un Paese vecchio, gerontocratico e destinato -se non si riforma profondamente- a un lungo e umiliante declino. Ha ragione il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a chiedere di sviluppare “una progettualità coraggiosa e innovativa“, superando la “presente condizione di diffusa sottoutilizzazione delle capacità di lavoro e innovazione delle giovani generazioni, le cui energie sono indispensabili per avviare un processo di duratura crescita economica e occupazionale“.
Dalle parole, però, occorre ora passare ai fatti. Immediatamente. In uno sforzo gigantesco, che coinvolga non solo la politica. Ma tutto il sistema-Paese.
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