Titolo: Piccolo testamento
Autore: Gabriele Dadati
Editore: Laurana
Anno: 2011
Il libro di Gabriele Dadati racconta in poco meno di 116 pagine almeno tre storie: la cronaca dell’evoluzione di un sogno – diventare scrittore, il percorso di elaborazione di un lutto – o forse due – per il maestro, per una ragazza molto amata, e la ricostruzione di sé stesso nel passaggio fatidico verso l’età adulta.
Nel romanzo, di autobiografico c’è molto e i tre fili che Piccolo testamento riesce ad intrecciare in un’unica lunga notte sono nervi che l’autore probabilmente sente ancora ben scoperti, ferita pulsante di un sentimento tormentoso e complicato, che poi è la vita nella sua banale ciclicità: si cresce, si ama, si crede, si muore. Tutti temi che la letteratura conosce bene, spunti che entrano nei discorsi tra conoscenti, perfino nelle chiacchiere del bar. E questo per dire che di rivoluzionario nel libro non c’è niente, ma di autentico c’è tutto e in questo a mio parere sta la gran forza del romanzo.
La prosa è tanto rigorosa da risultare dolorosa, scarnificata, privata del colpo ad effetto, seppure con qualche eccezione, e non è forse un caso che verso la fine la marcia sintattica si faccia più ricca e i concetti siano spesso reiterati, calcati: come a voler incanalare troppo a lungo una passione che preme e, finalmente, rompe gli argini.
Così, proprio verso la fine, troviamo passaggi profondamente umani, universali. Un esempio dello smarrimento che emerge (e annega tutti e tre i binari su cui corre la narrazione) è questo: “Così, morto Vittorio e morta lei (non posso far altro che pensarla così, morta, altrimenti vivrei giorno dopo giorno nell’attesa di un ritorno che non si perfeziona), sono rimasto solo io, che a mia volta sono morto. Formulo quindi una domanda: chi è, adesso, il testimone della mia vita? Chi condivide con me il ricordo di questi anni importanti, in cui nonostante tutto diventavo uno scrittore, ora che rimango solo io con la mia testa cancellata, con le vasche del pensiero sempre più deserte ogni giorno che passa? Mi ripeto che Vittorio, colui che mi ha dato la parola e l’autorevolezza per prendere la parola, che mi ha accompagnato in questi ultimi anni di crescita intellettuale, è morto. Mi ripeto che Marta, vale a dire l’unica persona nella quale abbia riposto la mia fiducia di uomo, l’unica persona che negli anni del nostro rapporto abbia saputo sbarazzarsi delle mie sovrastrutture, è morta anche lei. Per mano mia. Sì, dovrei proprio concludere che sono a mia volta morto,mentre in realtà il mio destino è più misero e meno clamoroso: sono soltanto rimasto inconoscibile, e cioè non c’è più nessuno qua attorno che abbia condiviso con me questi ultimi anni che sono stati i più importanti della mia vita”.
Lo sforzo che l’autore maschera con la pulizia che caratterizza la sua opera probabilmente è proprio la violenza di non mentire e non abbellirsi (fino a calcar la mano sulla sessualità istintiva e forse volutamente sottolineata dagli unici termini “fuori posto”,se confrontati con una forma per il resto classica e disciplinata) con il risultato che, per contro, si abbellisce eccome, perché risulta credibile, e dolce, e molto sincero.
Nascosti tra le pieghe dei due temi principali del romanzo, la perdita e la scrittura, alla quale, tra l’altro, sono dedicati spazi autobiografici interessanti, con la proposizione di alcuni aneddoti e riflessioni dell’autore sul primo libro di racconti pubblicato da Gabriele Dadati (che val la pena, con l’occasione, di rileggere: si tratta di Sorvegliato dai fantasmi), troviamo poi i passaggi sulla famiglia di origine, davvero molto belli. Forse in questi tratti risalta un’autenticità nuova, attuale, che si rinviene nella consapevolezza e nella nostalgia di un’evoluzione verso l’età adulta di una persona che è artista e uomo dell’Italia – reale – di oggi.
Una lettura toccante, che si assapora, come nel tempo del romanzo, in una notte.
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