Ci sono particolari momenti di percezione, di consapevolezza assoluta. Quelle epifanie che, sole e veloci, donano più emozioni rispetto a quanto riescano a fare interminabili saghe.
La scomparsa, cui si è preparati fin dal prologo, quasi ci si stesse adoperando per una complessa cerimonia funebre per il giorno di San Valentino, è più di un fatto muto e inintelligibile; trascende per divenire immagine e musica, mistero, scheggia di poesia. Al più inquietante, quasi quanto venire a conoscenza di quelle piccole coincidenze, create ad arte o del tutto spontanee, che vogliono le riprese aver avuto inizio esattamente il 14 Febbraio, lo stesso giorno in cui, nella finzione dell’intreccio, avviene l’evento scatenante, la sparizione; oppure le voci legate all’autrice del romanzo omonimo da cui il film è tratto, Joan Lindsay (1896-1984), che volevano gli orologi arrestarsi improvvisamente in sua presenza, stranezza o peculiarità costantemente riproposta nel film.
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La Gita
Il giorno di San Valentino del 1900 alcune ragazze del collegio vittoriano di Appleyard, a qualche decina di chilometri di distanza da Melbourne, compiono una gita ai piedi dello spettacolare complesso roccioso denominato Hanging Rock, letteralmente La Roccia Pendente o Appesa. Nella calura del pomeriggio, quattro di loro si allontanano per esplorare l’aspra e incontaminata natura del luogo. Tre non faranno ritorno, svanite nel nulla insieme alla loro insegnante.
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Il Mondo Altro
Nel 1975 Peter Weir aveva 31 anni, due in meno di quanti ne abbia io adesso. Egli aveva certamente le sue idee. Io ignoro quali fossero. E questa è, solitamente, l’obiezione che mi impedisce di speculare sull’eventuale [quasi sempre arbitrario, tipico di chi si abbandona alla sua ricerca] simbolismo insito nel film. E tuttavia mi riesce impossibile evitare di rimuginare su alcune delle sequenze magistrali di questa pellicola. Picnic ad Hanging Rock potrebbe essere considerato lento e obsoleto, attaccato disperatamente, pur avversandoli, a valori e credenze di un’epoca sì vicina a noi, ma ormai così distante da risultare immaginaria. Un’epoca in cui giovani donne leggevano di poesia, di arti pittoriche e di scienze matematiche, costrette ad indossare guanti bianchi e ad annuire e a sorridere e ad essere damigelle educate mentre a giovani e impettiti rampolli aristocratici era permesso ubriacarsi e restare a dormire fuori di casa, epoca in cui l’unico svago era comporre versi da dedicare alle proprie compagne di stanza, assecondando il sorgere di sentimenti obbligati, o giocare con carte disegnate a mano, inquietanti al solo vedersi.
E su questa società, pallido riflesso di quella inglese della madrepatria, dominata dalle apparenze di un vivere civile radicalmente inventato, che ha per strade della terra battuta e per alberi delle palme da dattero così distanti dai freddi boschi inglesi, si abbatte il mistero della scomparsa, improvvisa e inspiegabile. Ingiustificabile e talmente inattesa da risultare opera di qualcun’altro che… non appartenga al mondo dei protagonisti, di damerini e ufficiali, di quartetti d’archi e di piacevoli scampagnate non privi, però, di candidi tendoni da stendere, dove trovare conforto dai raggi del sole.
Peter Weir fa puro cinema. Quello, per intenderci, che parla per immagini e musica e attraverso i movimenti e i dialoghi, assolutamente intenzionali e ambigui, coreografici, degni del teatro dell’assurdo, delle ragazze protagoniste. Hanging Rock è un mondo alieno. Le ragazze sono l’innocenza e la sete di conoscenza, ma anche il destino. La morte che esse indossano e seducono, ben visibile dietro i loro occhi.
E mentre il vento accarezza splendidi prati secchi di cardi spinosi e nude rocce, il flauto di Pan di Gheorghe Zamfir proietta lo spettatore in un iniziatico rito pagano, dove le partecipanti sono allo stesso tempo officianti e vittime sacrificali [presenti e insieme assenti, simili a fantasmi in alcune terribili inquadrature] che, scalze, si dirigono verso un nume invisibile che sembra affacciarsi e sovrastarle e permeare l’ambiente tutt’intorno a loro, una selva interiore, uno sconosciuto altare eretto ad una divinità ctonia.
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Non-Catartica
Il film non conosce catarsi, né risoluzione. Privo di quella liberazione finale è costantemente sull’orlo della scoperta, momento al quale ci si avvicina, sedotti dall’ambiguità della natura e dalla vastità del possibile, e che tuttavia non si raggiunge mai.
Le ipotesi sulla scomparsa delle ragazze si accavallano stolide, accompagnate da dozzinali indagini di polizia, partendo dalle più ovvie, quali l’intervento di un misterioso rapitore, evocando immagini di tragiche fatalità, data la particolare asperità del luogo ricco di crepacci. Eppure trattasi di ipotesi contraddette dai fatti, dai ritrovamenti inspiegabili, se non attraverso idee e speculazioni che la mente umana avrebbe iniziato a formulare molti decenni dopo e la scienza ufficiale mai accettato del tutto.
La natura selvaggia non è nemica, non più di quanto lo sia ancora al giorno d’oggi. Essa è piuttosto indifferente ed ineffabile. E sembra possedere una propria volontà, un proprio mistero.
Il non mostrare è il punto di forza di questo film. L’ignoto resta messaggio potente ed ineguagliabile fonte di pura e sublime angoscia. Esso resta, immobile come le rocce di Hanging Rock, a rammentarci che non tutto possiamo conoscere e controllare. Ed il messaggio arriva intatto a noi altri, capaci come siamo di sparire nel nulla anche in un’epoca di controllo totale come questa.
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Il XVIII capitolo
Non è un film per famiglie. Non è un giallo, non un mistery, né un thriller. Né, tanto meno, un film di fantascienza. Esso è un “testo”. E come tale va “letto” e interpretato, tenendo ben presente l’arbitrarietà e la relatività di ogni conclusione.
Non c’è azione, indagine o complotto da svelare e probabilmente potreste trovare particolarmente irritante stare a sentire i piagnistei di piccole ragazze aristocratiche e ingenue, come le loro famiglie.
Non so neppure se sia appagante la sua visione, oppure se lasci affamati e assetati di risposte e di intrattenimento.
È, di sicuro, esperienza visiva e uditiva. Musica sublime, tranne nei momenti corali che risultano soverchianti, e riprese di luoghi reali che, da soli, nella loro bellezza esotica fanno molta più paura di qualsiasi finzione scenografica. Il finale, la risposta alla fatidica domanda su cosa ne sia stato delle ragazze scomparse, venne svelato da Joan Lindsay nel libro “The Secret of Hanging Rock”, pubblicato postumo nel 1987, che contiene il cosiddetto XVIII capitolo, escluso dalla precedente edizione del romanzo, che narra la “verità” su quegli strani accadimenti. Metto qui il link alla pagina su Wikipedia. Io non l’ho letto. Preferisco che i misteri rimangano tali.
Approfondimenti:
Scheda del Film su IMDb