Lo portava sempre in tasca, in quelle strette dei jeans da lavoro, che lo avvicinavano con un contatto fisico a Gilberto.
Era orgoglioso, come lo sanno essere i toscani, di essere nato a Scarperia, in quella patria dei ferri taglienti, che da centinaia di anni si trovava tra il Mugello e l’Appennino.
L’avevano realizzato nella fabbrica del Tonerini, con la sua punta leggermente ricurva ed il manico di corno lucido e nero, che lo faceva credere migliore degli altri coltelli, con i quali scambiava raramente opinioni, perché si trovava quasi sempre nella tasca dei pantaloni del padrone.
Quel giorno Gilberto lo poggiò sulla tavola di marmo grigio, dopo averlo aperto, accanto ad un piatto che conteneva un sussiegoso e saccente pecorino di Pienza.
Lui salutò felice come sempre, ma il pecorino mantenne le distanze ed ai discorsi su Scarperia, rispose con l’acredine che i senesi hanno da sempre nei confronti dei fiorentini, discorrendo del Papa Piccolomini e delle nobili origini del suo paese.
Il coltello rise un po’ sguaiatamente, ricordando al formaggio che, sì poteva avere ragione lui, ma che sarebbe durato poco ugualmente, mangiato dal padrone, mentre lui sempre lì, nella tasca dei pantaloni, avanti nel tempo e chi sa, forse a durare dei secoli.
“Caro bischero – gli disse anche – di te resterà solo la buccia che, pur bella e dorata, diventerà mangiare pe’ maiali. “
Il pecorino si agitò, ma sapendo che l’altro diceva la verità preferì non ribattere, rimanendo sulle sue, nel piatto di porcellana bianca posato sulla tavola.
La mano robusta del padrone posò accanto al pecorino una bella pera Coscia, panciuta e lucida, che li apostrofò subito con moine e salamelecchi:
“Avete mai visto una come me? Sono tornita e bella, con una buccia verde lucente, senza traccia di battute o di beccate degli uccelli!”
Lo disse quasi dimenandosi tra lo sguardo sorpreso e stupito del formaggio, che tra i denti mormorò:
“Che stupida, non lo sa che è arrivata al capolinea, tra mezz’ora di lei non resteranno che torsolo e bucce. Ma – continuò – vorrei sapere che ha da mettere in mostra.”
Il coltello, che era al primo incontro con una pera così bella ed invitante, si mise anche lui a fare lo scemo, ridacchiando convinto, anche quando il formaggio, con apparente noncuranza, iniziò ad aizzarlo, approfittando della pochezza della pera.
“Bella eh! – esclamò – chi sa cosa si prova a spogliarla – disse – Beato te, che con quella lama le farai provare l’ultima ebbrezza.”
Il coltello e la pera sorrisero, ognuno interpretando le parole del senese a modo suo: uno si vedeva già scorrere su quelle rotondità, asportando finemente la buccia e pregustando il contatto con la polpa dolce e con i liquidi appiccicosi che lei avrebbe emesso, l’altra pensava ai desideri che avrebbe solleticato per la prima volta in una lama, convinta di poterli sfruttare per piacere al padrone.
Il pecorino, se avesse visto un ripensamento anche tardivo dei compagni, si sarebbe potuto ravvedere e cambiare atteggiamento, ma le smorfie della pera lo fecero irritare ancora di più, quindi rivolgendosi alla lama rincarò la dose:
“Pensa quando dopo averla sbucciata la taglierai in quattro e le toglierai il torsolo… quello sì che sarà un bel momento, allora potrai davvero dire di esserti fatto una pera!”
Gongolò al pensiero il ferro tagliente, anche se la pera incosciente continuava a dondolarsi sulle sue rotondità appetitose.
“Però – continuò il cacio – sarò io che mi unirò a lei in un ultimo abbraccio, mentre il padrone ci masticherà soddisfatto, a te non resterà nulla di questo spuntino, sarai stato un gelido strumento in mano di Gilberto…”
“Questo lo dici te. A me non importa niente – rispose impertinente il coltello – lo sai quante ne spoglierò io di queste stupide pere, non ne hai idea. Finché campo, con la mia lama, nella bella stagione, mi farò una pera dietro l’altra, senza rimorsi e ogni volta con rinnovata eccitazione.” Riprese fiato e aggiunse:
“Allora caro chiacchierone, sarà meglio che tu cominci a far la corte alla perina, se te la vuoi godere… sempre dopo di me, comunque!! Altrimenti…”
“Scarperia, scarperia – chiamò inutilmente la pera, rivolgendosi al coltello, adesso che sembrava aver finalmente capito quale sarebbe stato il suo destino, si voltò di scatto verso il formaggio e con voce lamentosa lo chiamò – Pienza, sii buono, almeno tu ascoltami, io… non pensavo…”
Il senese fece da primo finta di non ascoltarla, poi bruscamente, con la voce che si rompeva dall’emozione e si trasformava in un brontolio profondo, le disse:
“Non ci pensare, tanto è così che vanno le cose, accettale di buon grado perché… non so perché.”
Il resto della frase gli morì dentro, tanto pesante era quello che non aveva detto, che divenne duro e giallo, come invecchiato in un attimo.
Il padrone si mise a sedere tirandosi dietro la sedia, guardò il Pienza, lo girò tra le mani, provò a tagliarlo perplesso, perché non si era accorto che avesse perso in così breve tempo la sua freschezza, si strinse nelle spalle e con un lancio preciso lo gettò nel secchio dell’immondizia.