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Pier Antonio Quarantotti Gambini: “I giochi di Norma”

Creato il 15 febbraio 2013 da Viadellebelledonne

Pier Antonio Quarantotti Gambini: “I giochi di Norma”
Non ha avuto una lunga vita Quarantotti Gambini, morto a cinquantacinque anni, nel 1965, a Venezia dove risiedeva, ma assidua fu la sua presenza nel mondo letterario con collaborazioni a quotidiani e a riviste tra le più importanti, fra le quali mi piace ricordare “La fiera letteraria”, fondata da Umberto Fracchia, e “Il Mondo”, fondata da Mario Pannunzio, entrambi lucchesi. Notevole fu la sua produzione di poesie, racconti e romanzi. Nel 1932 apparvero in “Solaria” tre racconti dedicati alla sua terra d’Istria, poi raccolti da Einaudi nel 1949; “La rosa rossa” è un romanzo del 1937; “L’onda dell’incrociatore” è del 1947; “Primavera a Trieste” del 1951; “Amor militare” del 1955, poi variato nel titolo con “Amor di lupo” nel 1964; “Il cavallo Tripoli è del 1956; “La calda vita” del 1958. Postume usciranno, nel 1965, le sue poesie “Racconto d’amore” e, nel 1967, il romanzo “Le redini bianche”. L’amicizia con il poeta Umberto Saba sfocerà nella pubblicazione postuma, nel 1965, del carteggio epistolare con il titolo “Il vecchio e il giovane”. “I giochi Norma”, che uscirà nel 1964, contiene tre racconti tra cui “Le trincee” del quale Giorgio Bárberi Squarotti scrive nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET, 1971: “ ‘Le trincee’ sono un bellissimo racconto, di una perfezione quasi assoluta”.

Il primo racconto, “Alle saline”, narra la storia di un’amicizia tra due giovani, Nando e Paolo. Paolo ammira Nando: “Sempre scalzo come sul bragozzo di suo padre, Nando ha un suo modo di camminare e di muoversi, agile e solido. Vien da guardargli i piedi: alluci forti, staccati dalle altre dita, e mobili. Piedi che stanno bene nudi.” A forza di frequentarlo (è estate e si sono conosciuti in autunno) “Paolo si è fatto uguale.” Non si parlano molto e così Paolo “tace sempre più spesso anche a casa.” e “cammina ormai come Nando, poggiando forte sui piedi e dondolandosi.” Vive coi nonni, i genitori stanno invece a Trieste. Nando gli ha parlato così bene delle notti che trascorre sul suo bragozzo che Paolo sente la voglia di scappare di casa una sera per uscire in mare con l’amico. Ma non si deciderà mai, perché questo della indecisione sarà il punto debole del suo carattere.

Ancora si andava in carrozza, e Nando ha talvolta espressioni dispettose nei confronti delle famiglie più agiate, tra le quali quella di Paolo. Paolo ne è un po’ ferito, ma cerca di non farlo capire. Guardate questa immagine che raffigura con poche parole un’epoca: “La carrozza, giunta alla fine del ponte, rallentò; poi, svoltando in città, riprese il trotto e scomparve tra le barche e le case della riva.” La città è Capodistria, poco distante dal loro paese, Semedella, e la carrozza è quella del nonno di Paolo.

La scorgono mentre vanno a pescare “alle saline” e Paolo ha dimenticato di portare il barattolo dei vermi, che nasconde di solito in giardino, per non tenerlo in casa e subire i rimproveri della nonna. Nando va a prenderlo, e Paolo, restato solo alle saline, s’inoltra in un punto dove non era mai stato, vi scorre un canale. I suoi occhi si guardano intorno, diventano come il pennello di un pittore, e il paesaggio si addensa di colori e di sentimenti. Tutta la scena delle saline, del canale dove sta nuotando completamente nudo un soldato italiano, delle due donne, una vecchia e l’altra giovane, che ridono mentre sostano a guardarlo, alle quali il soldato indirizza un saluto, ha la luce e la morbidezza di un istante colto tra stupore e felicità: “Fermo nell’acqua, l’italiano stette alcuni istanti così, parlando alle donne; e la superficie gli specchiava tremolanti, corte e larghe, spalle e testa. Ma all’improvviso lo si vide spiccare, ritto in piedi, un balzo come i calciatori quando respingono il pallone col capo, e uscire fuor d’acqua sino alle anche, gridando.”

Le due donne scorgono Paolo che cerca in un primo momento di nascondersi ma, vistosi ormai scoperto, si mostra anche lui uscendo dai cespugli dove si era riparato. La giovane, dapprima un po’ vergognosa, infine gli sorride, ed anche l’altra, che ha gli stessi tratti del viso (“Che fosse sua madre?”), non gli pareva più tanto vecchia.”

Ed ecco come tutto ciò, ossia questo insieme di passaggi, confluisce in Paolo a formare il sentimento: “Provò allora, fra quei brividi, e con un tremito alla gola, mentre era tutto caldo scottante e a tratti la brezza lo scorreva, alcuni momenti di piacere acuto, sconvolgente; e sentì insieme, dentro di sé, come un canto sempre più alto, squillante: qualcosa che non avrebbe saputo dire e che lo sollevava, lo portava via.” È questo, dunque, il registro narrativo di Quarantotti Gambini, grazie al quale tutto è mutuo scambio e partecipazione alla vita. Una scrittura lineare, limpida, che affonda, però, nei meccanismi più reconditi dell’esistenza.

In questo primo racconto affiora in Paolo il ricordo di Norma, di quando era bambina ed insieme giocavano a nascondiglio, e quella ragazza dell’argine che gli aveva sorriso acquista a poco a poco il volto di lei.

È il modo scelto dall’autore per introdurci nel secondo racconto, quello che Giorgio Bárberi Squarotti loda nella sua nota su Quarantotti Gambini, “Le trincee”. Si deve precisare che questa raccolta viene a completare una trilogia ambientata negli anni intorno alla Grande Guerra, che aveva già visto pubblicati “Il cavallo Tripoli” e “Amor militare”. Il racconto “Le trincee” era già apparso nel 1942 per i tipi di Einaudi.

Paolo e Norma stanno giocando. Sono bambini. Norma è la figlia di una contadina che lavorava per i nonni di Paolo. Poi questa contadina sparisce. Norma non ne parla mai. Ora Norma vive nella proprietà dei nonni di Paolo con Meneghina, “una vecchia senza famiglia”, “nella torretta che un tempo era servita da colombaia.” Sentono un rumore e Paolo “guardò in viso la bambina. Tendendo l’orecchio, si era fermato sotto il tronco di un pino, e fissava gli occhi nelle iridi castane di lei, in cui parevano essere accese tante pagliuzze d’oro.” È lo sguardo ancora innocente di un’amicizia che sta per trasformarsi in amore: Norma “arrossì un poco nell’incontrare gli occhi di Paolo.” Anche in questo, come nel precedente racconto (tutti e tre i racconti formano un corpo unico, che ruota intorno agli stessi personaggi e allo stesso ambiente, il paese di Semedella), il rumore proviene da una carrozza.

Qualcuno si reca in visita alla casa di Paolo. Ma Paolo è preso dal desiderio di continuare il gioco e propone a Norma di andare nel campo lì vicino dove Guido e Bruno hanno scavato delle trincee e stanno giocando alla guerra. Litigano un po’ perché Norma vorrebbe arrampicarsi con lui su di un grosso pino.

Avevamo già notato nel precedente racconto la precisione delle descrizioni di questo autore, per esempio quelle del soldato che faceva nudo i salti nell’acqua e delle due donne che stavano ad osservarlo dall’argine. Ora ne troviamo un’altra, che mostra in che modo, con molta semplicità e naturalezza, lo scrittore riesca a trasferire nella prosa le sue qualità di assoluta precisione lessicale e di minuto osservatore: “Uno stormo di fringuelli, scendendo dalla collina, si era sparpagliato sui rami dei pini.” Qui, il senso di movimento alla scena e di raffigurazione viva della realtà è dato da quel participio passato, “sparpagliato”, che ci rimanda e restituisce con la puntualità propria di un attento osservatore della realtà il movimento impresso da uno stormo di uccelli quando si posa su di un albero. Così pure allorché l’autore scrive che i fringuelli, al primo rumore, “volarono via con un frullo d’ali che si propagò di ramo in ramo, e il silenzio che si diffuse nel boschetto parve insolito.” Altro esempio: “Di là, proseguirono in silenzio sull’erba folta, che dopo l’arsura degli aghi dei pini pareva insolitamente fresca sotto i piedi nudi.” Chi sia stato in una pineta o possieda almeno un pino sa bene quanto gli aghi opprimano e soffochino il manto erboso sottostante. Si veda anche qualche riga più oltre, allorché Paolo chiede un bacio a Norma: “Si era ricordato che al bagno, alle saline, l’aveva qualche volta baciata; ma allora egli era quasi un bambino, e Norma era ancora piccola, e lasciava fare ora seria seria e ora stringendo gli occhi nel riso come quando sentiva il solletico. Adesso invece quegli occhi si erano fatti grandi, e vibravano a tratti di una luce che gli faceva talvolta distogliere i suoi.”

Un ultimo esempio, perché se ne potrebbero portare tanti altri: il cane Eros ha finito di abbaiare, mentre Paolo è seduto sopra la forcella di un ramo: “E il cane, quietatosi, si sdraiava sbadigliando davanti al canile. Poggiò il muso nero, dagli occhi luccicanti, sulle zampe anteriori stese e ferme; e, quando Paolo tentò di aizzarlo con la voce, si limitò a gonfiare la gola in un mugolio prolungato.” Questo mugolio e quelle zampe anteriori “stese e ferme” sono il particolare che rende viva e reale l’immagine.

Avevo già letto questo libro, che in calce porta la data in cui terminai la lettura, 5 novembre 1966, e ne ricordavo ancora, a distanza di quarant’anni, la forte impressione ricevuta.

Siamo rimasti alla richiesta del bacio, e Norma è disposta ad accettare, ma prima Paolo deve dargli uno dei fichi che ha in tasca. Solo dopo lo bacerà. Mangiato il fico: “gli porse le labbra ancora umide, protendendole seria e con attenzione. Paolo vi giunse le sue, e la strinse leggermente verso di sé. Sentí, oltre il vestitino, un piccolo ventre e le ossa dolci e slegate delle anche, e un costato lieve, sopra il quale qualcosa si ammorbidiva sollevandosi appena nel respiro.”

Ad un certo punto, Paolo ricorda che un giorno aveva chiesto a Toni, il cocchiere, chi fosse il padre di Norma, e questi si era messo a ridere e gli aveva dato “una sculacciata.” Si ricorda anche che tutte le volte che lo “zio Marco” veniva a trovarli da Capodistria prima cercava loro e solo dopo averli incontrati entrava in casa. Regalava loro le caramelle e trattava sia Norma che lui allo stesso modo, e questo dispiaceva a Paolo, che desiderava che lo zio gli dedicasse maggiore attenzione. Così rimproverava ogni tanto Norma, dicendole che lei “non aveva diritto di chiamarlo zio.”

Nacque una gelosia a causa di questo, e tutte le volte che lo zio Marco si intratteneva con Norma, Paolo si allontanava. Noi intuiamo da questi ricordi che Norma è avvolta da un mistero, soprattutto allorché Paolo fa la spia al nonno di questa confidenza tra la ragazza e lo zio e il nonno si inquieta. Paolo rammenta bene che il giorno dopo, tornando lo zio Marco, la nonna lo chiamò in disparte e Paolo capì che lo stava rimproverando: “I giorni seguenti lo zio non si fece vedere” e Paolo “si attaccò più che mai a Norma.”, nonostante la nonna lo consigliasse di frequentare i ragazzi della “nostra condizione”. Qualche tempo dopo, quando lo zio propose ad entrambi di andare in barca per il canale con lui, Paolo dimenticò la sua collera, e a poco a poco, con quelle gite mattutine che tenevano nascoste ai nonni, si formò tra i tre “come una complicità”.

Prima di questi ricordi, abbiamo lasciato i due ragazzi nel momento che devono decidere dove andare a giocare, o sul grande pino o alle trincee. La vince Paolo e così Norma lo precede di corsa e quando vede le trincee vi si butta dentro chiamando a voce alta Bruno e Guido, che si trovano nel campo vicino, sopra la stalla. Quando arriva Paolo i tre si coalizzano contro di lui e guerreggiano gettandogli groppi di terra. Paolo non si fa pregare, risponde per le rime, ma il suo desiderio è quello di colpire soprattutto Norma, anche lei accanita contro di lui. Si è conciata come un maschietto: “ritta in piedi sul ciglio della trincea, più grande e più infiammata che mai, con le gambe nude e il vestito raccolto entro le mutandine, come un maschio. Coi suoi capelli corti e gli occhi accesi, sembrava davvero un ragazzo. Le sue gambe snelle apparivano adesso dure, robuste; e non più chiare, dorate, sebbene ella fosse illuminata in pieno dal sole calante che le faceva socchiudere gli occhi, ma più scure, brune.”

Si accanisce contro di lei al punto che le scaglia un grumo di terra che contiene al suo interno una pietra. La colpisce alla fronte. Lei cade nella trincea e Paolo, dopo averla vista svenuta, “con quelle gambe nude  e la gonna entro le mutandine”, corre a casa a prendere un po’ d’aceto. Lo sa bene che il grumo di terra conteneva una pietra, e scagliandola aveva anche provato piacere, ma ora si domanda che cosa sia successo a Norma. Guido e Bruno sono scappati. Va annotato che questi ragazzi camminano sempre a piedi nudi e proprio i piedi trasmettono loro continue sensazioni, facendo da contrappunto ai sentimenti: “In casa sentì fredde le piastrelle del vestibolo. Contrasse le piante, ma insieme provò un senso di sollievo, quasi avesse cercato quell’impressione diaccia, ed essa sciogliesse la tensione ch’era in lui, come un bagno gelido libera dalla febbre.”

Anche quando Norma e Paolo da piccoli andavano alle saline a fare il bagno, “quando entravano in quell’acqua ferma si liberavano in fretta, senza dirsi nulla l’un l’altro, delle mutandine, e, sciolti, felici, ne godevano su tutto il corpo il tepore.” Quarantotti Gambini fa della nudità un veicolo di sensazioni propedeutiche al sentimento. Ancora: “Da quando non lo facevano più? Norma, un giorno, si era levato il costume anche l’anno innanzi.” Mentre corre a soccorrerla con la tazza dell’aceto in mano, sente la voglia di tornare a nuotare con lei alle saline: “Il sole non era ancora tramontato; era il momento più propizio. Purché Norma rinvenisse subito.” Invece inciampa, la tazzina cade a terra e l’aceto si disperde. Non ne resta una sola goccia. Ormai è vicino alla trincea, ma quando arriva, scopre che Norma non c’è più, e non c’è più nemmeno la trincea che qualcuno ha ricoperto di terra: “vide una zappa, che luccicava sinistra, e un badile ingroppato di fango.” Sul posto c’è la piccola Lena, la sorella ritardata di Guido e Bruno che, alla domanda di Paolo, lascia capire che i fratelli hanno sepolto là sotto Norma. Non sarà così, in realtà tutto finirà bene, ma a Paolo resterà dentro un’ansia ed una rabbia contro tutto e tutti, per le insufficienze e le incertezze che ha dimostrate, e ce l’ha perfino con Norma che, eppure, gli compare davanti sorridente, anche se con la tempia maculata dal colpo ricevuto, e ce l’ha con lo zio, che si è preso il merito di averla raccolta dalla trincea e di averla portata a casa sulle braccia, e ce l’ha perfino con il cane Eros che, abbaiando, ha richiamato l’attenzione dello zio. Ma infine tutto in lui si scioglierà non appena lo zio “gli batté la mano tra le spalle, due o tre volte, forte, come per rincuorarlo. Si sentì, di colpo, tutto acceso in viso; e, inaspettatamente, le lacrime gli inumidirono un istante le ciglia. Era ormai contento, in pace con Norma e con sé, e grato allo zio.”

Per i legami che uniscono i tre racconti, non si sbaglia affatto se si definisce questa raccolta un vero e proprio romanzo. I riferimenti tra l’uno e l’altro dei racconti, il fatto che si svolgono tutti e tre nell’ambiente dei nonni, a Semedella, con i medesimi personaggi e con una cronologia appropriata, fanno di essi altrettanti capitoli di una unica storia che appare, dunque, segnata da questa speciale originalità. “La lettera”, che è, dunque, capitolo conclusivo, ci dà notizia che lo zio Marco è morto, e così anche la vecchia che badava a Norma, Meneghina. La preoccupazione dei nonni di Paolo è ora quella di sistemare la ragazza, rimasta praticamente sola “nella vecchia colombaia; nella torretta, come veniva chiamata”: “Norma era cresciuta; era diventata da pochi mesi, dall’inverno all’estate, quasi un’altra. Magra, con lunghe gambe che le gonne coprivano sempre meno, e le ginocchia ancora da ragazzo, un po’ forti e ruvide, era dimagrita anche in volto. Aveva smunte le guance, che le formavano, sul volto un po’ meno bruno di sole che non gli anni precedenti, due macchie d’ombra; e la bocca invece prominente e rotonda; e, sotto i capelli biondi, due occhi seri.”; “quei grandi occhi seri, tanto diversi dagli occhi sempre ridenti ch’ella aveva un tempo.”

Un’altra qualità della scrittura limpida di Quarantotti Gambini risiede nell’uso di una punteggiatura ineccepibile, rara ai nostri giorni, nei quali la ricerca spasmodica di novità stilistica rischia di confondere i significati. L’uso del punto e virgola, ad esempio, soprattutto nella parte finale del primo dei due brani sopra riportati dà la misura dell’attenzione che l’autore pone al ritmo del suo narrare. Osservate i due punti che intervengono in quest’altro brano, che si trova subito dopo: “Una ragazza, alta, camminava per la stradetta del pozzo, di un passo lungo e un po’ lento; un passo che non ricordava quello di Norma: ch’era invece sussultante, vivace, quasi ella avesse sempre voglia di correre e di giocare. Pure era lei.”

Si capisce subito che in questo ultimo capitolo la figura di Norma è destinata a crescere e ad imporsi: “I pranzi e la cena glieli mandavano i nonni di Paolo. Andava a letto presto, e poi Toni la chiudeva a chiave in casa, per andare a riaprirle il giorno dopo. Dicevano che teneva la casa bene, e che lavava, che faceva tutto da sé.”; “Quando usciva dalla torretta e girava per i sentieri e per i viottoli che conosceva da sempre, pareva si muovesse, esitante, leggermente incantata, in un mondo nuovo per lei. E sembrava vedesse con quello stesso stupore tutti, persino Paolo.” Noi, che abbiamo conosciuto la Norma che lanciava i groppi di terra e si infilava la gonna nelle mutandine per essere più libera nei movimenti, proprio come un maschietto, sappiamo ben comprendere il suo stupore, che è quello di sentire allontanarsi da sé la ragazzina disinvolta e sbrigliata ch’era stata, per diventare un’altra che ancora non conosce. L’autore ha sorpreso e colto con una esattezza psicologica straordinaria tutto il mondo dei sentimenti che si raccoglie in questo particolare momento della crescita femminile. I nuovi sentimenti ancora non si sono liberati degli altri e ancora ne percepiscono le vibrazioni. Anche solo per questo, il libro acquista un valore davvero eccezionale. I nonni decidono di mandare Norma in collegio. Paolo va a salutarla ma un rimorso lo assilla: “se non l’avessi lasciata sola, forse il nonno non la manderebbe in collegio.” Assistiamo, così, ad una crescita, quella di Norma, che avviene in solitudine. Paolo, che pure l’ama (immagina, ad un certo punto, che “Norma, all’improvviso, era sua moglie”), anche lui divenuto più grande (“Era già più grande della nonna e più di Momi, più di chiunque a Semedella, e stava ancora crescendo. Ma era magro magro, e anche il suo viso si era fatto asciutto, quasi patito. Presto sarebbe diventato, dicevano, più alto del papà.”), non riesce a fare nulla per lei, nemmeno per consentirle una partenza dignitosa: “la mandavano via sul legno più sgangherato e con un cavallo che non stava in piedi.” La dignità che Norma dimostra nel congedarsi dai nonni fa da contrasto a questo calesse traballante e contrasta pure con una crescita, quella di Paolo, ancora immatura, mancante di risolutezza e colma di rimorsi, incertezze e paure. La partenza di Norma è tra le pagine più belle del libro e tutto quest’ultimo capitolo ha la delicatezza rara che nasce dai sentimenti più puri: “Grazie di tutto, disse. Era, pur nel rossore, quel suo sorriso di fanciulla, ancora una volta; ma, quando tornò a guardare davanti a sé, verso il cavallo, l’angolo della bocca le si scompose, le si piegò. Curvò la testa; e le sue spalle, nella mantelletta nera, ebbero alcuni sussulti sempre più rapidi. Poi portò le mani a coprirsi il volto, e si udirono i suoi singhiozzi sopra lo stridore del freno.” Noi possiamo trovare un paragone di tale bellezza soltanto nell’Addio ai monti, quando Lucia, nei “Promessi sposi”, lascia la sua casa.

Paolo è ancora e sempre il giovane dalle risoluzioni tardive, contro le quali si scontra il suo carattere in formazione. Partita Norma, egli, che se n’era stato per tutto il tempo nascosto, si mette a correre per inseguirla, ma invano. La carrozza sparisce all’orizzonte e di lì a poco si sente il fischio del vaporetto che condurrà la ragazza a Trieste: “Norma era partita. Era meglio così, forse. Sì, era meglio così.” A tavola, dopo tanto tempo che Norma non aveva scritto a nessuno, allorché il nonno dice a Paolo che dovrebbe scriverle, essendo stati loro due “tanto amici”, e Paolo si era consumato per tutti quei giorni in attesa di una sua lettera, questa è la risposta risentita che dà al nonno: “Scriverle? Ma io me ne frego di Norma!”, facendolo arrabbiare. Un motivo c’è perché il nonno si adiri davanti a quella risposta cattiva e risiede nel mistero che avvolge – ricordate? – la vita di Norma. Non mancherà molto a scoprirlo, e Paolo lo apprenderà proprio da Toni, il cocchiere a lui tanto antipatico. Il quale gli svelerà anche un altro segreto della famiglia, che riguarda, questa volta, la morte dello zio Marco.

Norma comincerà a scrivere ai nonni di Paolo, ma mai a lui. Paolo, ancora una volta, non sarà in grado di far crescere e capire il suo amore per Norma, e soprattutto di comprenderne la spigolosa e altera femminilità; sarà corroso dalla rabbia, ma la colpa sarà soltanto sua, giacché c’è un motivo per cui Norma non gli scrive. Pare che lui lo abbia dimenticato, ma sta in una risposta che Norma gli aveva dato la sera prima della partenza, quando Paolo era andato a salutarla sotto la sua finestra. Bisogna tornare a quella scena per capire, e il lettore, sono sicuro, vi tornerà.

Con questo libro, Quarantotti Gambini ci dà l’esempio di come si possa scrivere con un linguaggio semplice un romanzo esemplare: un classico.



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