Ed eccoci qua, con un nuovo appuntamento del solito, bellissimo collettivo di blogger che periodicamente allieta le vostra tranquilla web routine. Oggi si tratta di un "day" a cui tengo tanto, quello su un poeta/regista/intellettuale che reputo di fondamentale importanza per la mia crescita personale. Ovviamente sto parlando di Pier Paolo Pasolini. E per festeggiare Pasolini ho deciso di parlarvi di uno dei suoi migliori lavori cinematografici: Teorema.
Teorema è il film di passaggio, la rappresentazione dello snodo mediano di un percorso, l'idea che si palesa, quell'idea che lo scrittore/poeta/regista porterà avanti fino alla fine dei suoi giorni. Ma qual è, poi, questa idea?
Quella che l'ansia del consumo, istituzionalizzata da un "regime" imposto (e, in un certo senso, auto imposto), ci rende schiavi di un nulla sociale che ci spinge a un'uguaglianza innaturale, basata sulla negazione di qualunque diversità.
Siamo infondo alla fine degli anni '60, quelli del boom economico e dello sdoganamento di valori e idee politiche, gli anni del dissenso, gli anni della rivoluzione pop, tutte cose che hanno poi portato all'affermarsi di nuovi standard che, col tempo, sono divenuti regola. Pasolini allora riflette sul costo di questa rivoluzione, sulla negazione di una diversità che mette in crisi lo status quo così faticosamente raggiunto. Con gli anni '70 avrà inizio poi quel livellarsi delle classi sociali che porterà ad una nuova idea di borghesia, non più classe economica ma ideologica: che persegue, appunto, l'ideale consumistico.
Non più un "siamo", quindi, ma un "dobbiamo essere": uguali nella nostra ansia consumistica che annulla il valore sacrale di ogni cosa, generando quel vuoto cosmico in cui ci muoviamo.
Credo che un'introduzione come questa sia d'obbligo per poter parlare di Teorema, film del 1968, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, prodotto da Franco Rossellini e Manolo Bolognini, presentato quello stesso anno in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia.
Film poi sequestrato dalla Procura della Repubblica di Roma e messo al bando da quella di Genova per "[...] oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava". Accusa ritirata dal Tribunale di Venezia con una sentenza che assolse sia Pasolini che il produttore Donato Leoni, ma che non riuscì a mettere fine alle aspre critiche che opera e autore si videro arrivare praticamente da ogni dove: quello conservatore e di destra, quello progressista e di sinistra, per non parlare di quello ecclesiastico che prima lo premiò con l' OCIC e poi lo condannò senza appello. E in effetti Teorema è un film che esprime un'idea chiara e semplice, scomoda ma assolutamente affascinante.
Cinema di poesia, di questo si tratta. Praticamente l'idea pasoliniana che il cinema debba sì raccontare una storia, ma che lo debba fare attraverso la poesia delle immagini, attraverso lo stile del regista che impone una propria visione/direzione. Ci saranno quindi due livelli: quello narrativo e quello poetico che il regista/autore imporrà sovrapponendo il suo sguardo a quello dei personaggi. Ecco, il cinema di poesia, con Teorema, si fa carne: da un punto di vista narrativo abbiamo una storia semplice e lineare, quella di una famiglia borghese tipo (moglie, marito, figlio maschio, figlio femmina, governante) tra le cui mura, un giorno, arriva un ospite misterioso, un ragazzo affascinante che farà innamorare tutti di se e che poi andrà via, facendo precipitare tutti nella disperazione e nell'incertezza. Da un punto di vista poetico, invece, abbiamo la rappresentazione di un idea, quella di Pasolini, che prende forma attraverso il suo stile, attraverso le sue inquadrature, i silenzi che si contrappongono a monologhi aulici, letterari, che citano e si nutrono di citazioni poetiche e visive ( La Bibbia, Francis Bacon, Rimbaud).
La realtà però è che Teorema, più che un film, sembra un esperimento: la macchina da presa, con fare asettico, quasi porta avanti un'indagine scientifica, spiando con sguardo glaciale il destabilizzarsi di quell'unico organismo alla base della società borghese: la famiglia. Individui che, sulla base di un codice di valori comune, portano avanti un'esistenza insensata perché priva di quella scintilla sacrale e individualistica che la rende degna di essere vissuta: uomini e donne annoiati, alla ricerca di sicurezze economiche e affettive, privi della loro individualità, pronti a reprimersi (soprattutto sessualmente) in nome del socialmente utile e del socialmente accettato.
Allora, per portare avanti il suo esperimento "ideale", Pasolini inserisce un elemento destabilizzante nel contesto borghese: l'Ospite, un individuo misterioso dalla prorompente carica sessuale, cristologica - che ricorda molto da vicino il Cristo rappresentato quattro anni prima ne Il Vangelo secondo Matteo - incarnazione messianica della primitività dei sensi ormai negata all'uomo in nome di un progresso artificiale e fasullo, che fa a pezzi l'ordine (auto) imposto e lascia, dopo il suo passaggio, solo un vuoto che l'individuo non ha più gli strumenti per colmare. E' come se, portato a termine il proprio esperimento, il regista si rendesse conto che ormai è troppo tardi, ormai è talmente radicato in noi questo modo di vivere e concepire la vita che seppur tentassimo di "ripartire da zero" non potremmo. Allora o impazziremmo o diverremmo vittime di una ricerca senza speranza. In fondo siamo automi che hanno sacrificato la loro umanità in nome di un ordine fragile e fasullo. Ed è indicativo che ad essere avulso da questo meccanismo sia l'unico personaggio del film a non far parte, nei fatti, dell'ordine borghese: Emilia, la serva, l'unica a farsi erede del seme della "rivoluzione" piantato dall'Ospite, che si trasforma ed eleva il suo sguardo tornando alla natura (dei sensi, degli impulsi, dei sentimenti), accettando il lato primitivo dell'esistenza, nel bene e nel male. Agli altri questo non è concesso, gli altri questo non lo possono capire perché sfugge completamente alla loro logica. Così si perdono e quel che rimarrà sarà o il silenzio o un urlo di dolore che non avrà più fine.
Il bello è che neanche Pasolini si esclude da questo meccanismo perverso. Lui, il poeta, l'artista che ha incarnato questa contraddizione più di chiunque altro: laico e cattolico, riformatore ma ancorato alla tradizione, un perverso che si vergognava delle proprie perversioni, un gay che si auto puniva per la propria omosessualità, un diverso che odiava la propria diversità e cercava di celarla (e celarsi) attraverso l'atto creativo, consapevole però che la creazione è qualcosa di casuale. Lui, Pasolini, non si elevava sull'italianità che tanto criticava, era consapevole di farne parte.
Questo, come ho detto, è stato il film della svolta per Pier Paolo, un'opera talmente importante da meritare un adattamento sotto forma di romanzo quello stesso anno. Teorema comunque, al di là del valore teorico e poetico, è sicuramente un grande film. Difficile, nichilista, pesante, ma un film incredibile. Lo è da un punto di vista tecnico (senza rinunciare all'idea pasoliniana di cinema di vita), lo è per le interpretazioni immense di Terence Stamp, Massimo Girotti, Silvana Mangano, Anne Wiazemsky e Laura Betti, lo è per le musiche di Ennio Morricone e per una colonna sonora che spazia tra classica, jazz e pop o per la fotografia asfissiante, crudele e alienante di Giuseppe Ruzzolini, che mette a disagio. Insomma, un film che rimarrà per sempre nella storia del cinema italiano ed europeo.
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