Pier Paolo Pasolini e i suoi rapporti con la politica e i movimenti del 68′

Creato il 07 settembre 2011 da Malacarne_nonconunlamento

Pier Paolo Pasolini e i suoi rapporti con la politica e i movimenti del 68′

a cura di Angela Molteni

curatrice e studiosa
dell’opera di Pier Paolo Pasolini

“I miei critici, addolorati o sprezzanti, [mentre tutto questo succedeva...]
non si sono accorti che la degenerazione è avvenuta proprio
attraverso una falsificazione dei loro valori.
Ed ora essi hanno l’ aria di essere soddisfatti di trovare
che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta
più democratica, più tollerante, più moderna, ecc. Non si accorgono
della valanga di delitti che sommerge l’Italia: relegano questo fenomeno
nella cronaca e ne rimuovono ogni valore.
Non si accorgono che non c’è alcuna soluzione di continuità
tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono”.
Pier Paolo Pasolini

Come sono diventato marxista?
Ebbene… andavo tra fiorellini candidi e azzurrini di primavera,
quelli che nascono subito dopo le primule,
– e poco prima che le acacie si carichino di fiori,
odorosi come carne umana, che si decompone al calore sublime
della più bella stagione –
e scrivevo sulle rive di piccoli stagni
che laggiù, nel paese di mia madre, con uno di quei nomi
intraducibili si dicono “fonde”,
coi ragazzi figli dei contadini
che facevano il loro bagno innocente
(perché erano impassibili di fronte alla loro vita
mentre io li credevo consapevoli di ciò che erano)
scrivevo le poesie dell’”Usignolo della Chiesa Cattolica”;
questo avveniva nel ’43:
nel ’45 “fu tutt’un’altra cosa”.
Quei figli di contadini, divenuto un poco più grandi,
si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo
ed erano marciati
verso il centro mandamentale, con le sue porte
e i suoi palazzetti veneziani.
Fu così che io seppi ch’erano braccianti,
e che dunque c’erano i padroni.
Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx.
[…]
(Da Pier Paolo Pasolini, Poeta delle Ceneri in Bestemmia – Poesie disperse, II)

Da Casarsa a Roma: una breve nota biografica

Fino al 1949 Pasolini visse a Bologna, dove è nato e ha compiuto gli studi, e per lunghi periodi ha soggiornato a Casarsa della Delizia, in Friuli, paese di origine della madre. Al Nord Italia, dopo l’8 settembre 1943, vi erano ancora i tedeschi e proseguiva la lotta di Resistenza. Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, si era unito ai partigiani, nella zona del Friuli al confine con la Slovenia, e aveva aderito al Partito d’Azione. Guido morirà il 12 febbraio 1945, ucciso da partigiani di formazioni slovene che intendevano annettersi i territori friulani. La notizia della sua morte arriverà a Pier Paolo Pasolini solo nel maggio del ’45.

In Pasolini – nella sua situazione di intellettuale che si sta formando su Gramsci, e soprattutto per la sua “vicinanza” al mondo contadino che conosceva così bene – matura l’idea di aderire al Partito comunista italiano. Pasolini si iscriverà nel 1947 al Pci e nel ’48 diventerà segretario della sezione comunista di San Giovanni di Casarsa. In quello stesso anno sarà anche insegnante alla scuola media di Valvasone.

L’estate del 1949 è un periodo in cui Pier Paolo riceve, pur senza dargli alcun peso, vaghe minacce e ricatti provenienti dall’ambiente politico della Democrazia cristiana. Narra tra l’altro il cugino, Nico Naldini, nel suo libro Pasolini, una vita: “Già tre mesi prima dell’accaduto un prelato molto importante di Udine aveva fatto dire a Pier Paolo che se non avesse smesso la sua attività politica avrebbe fatto di tutto per rovinarlo, intenzioni poi confermateci da un deputato democristiano mio amico.[…] Non potete immaginare la propaganda che si è fatta in Friuli e il dolore di tutti noi”.

L’”accaduto”, in breve, è questo: nell’ottobre di quell’anno, Pasolini viene denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico (nel dicembre del 1950 verrà assolto con formula piena). Il 28 ottobre i giornali pubblicano la notizia (su indicazioni della Dc di Udine) e il giorno dopo l’”Unità” esce con un trafiletto inviato dalla Federazione del Pci di Udine, che decreta l’espulsione di Pasolini dal partito: “Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanto decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese”. Pasolini risponde alla Federazione di Udine: “Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola”.

Nel gennaio successivo Pasolini partirà con la madre per Roma e nella capitale, dapprima disoccupato, troverà poi un lavoro iniziando con un modesto incarico di insegnante in una scuola privata, e affermandosi più avanti come scrittore e regista.

Il 1956 e la crisi del Pci

Nel 1956 vi è una forte crisi ideologica e politica (che coinvolge tutto il movimento comunista), determinata dal “rapporto Kruscev” al XX Congresso del Partito comunista sovietico. Le critiche a Stalin e al suo sistema di potere che sono espresse dal “rapporto” avranno effetti psicologici enormi e imporranno nuove prospettive e strategie ai comunisti in tutto il mondo. Fecero inoltre seguito, quasi subito, i fatti di Ungheria e di Polonia.

Pasolini, ragionando in particolare sulla sua attività letteraria dopo tali avvenimenti, scriverà: “Era un’epoca della mia vita in cui io, come scrittore, non potevo non tenere costantemente presente quella prospettiva e quindi questa non poteva non far parte immanente e continua della mia ispirazione”. E non poteva neppure non tener conto della crisi del Partito comunista italiano, a cui era rimasto idealmente legato e al quale dichiarò in più occasioni di dare il proprio voto.

In Una polemica in versi, uno dei poemetti che compongono Le ceneri di Gramsci, Pasolini rivolge un duro attacco al Pci e al suo crescente burocratismo:

“L’ora è confusa, e noi come perduti
la viviamo…”, mi mormoravi, amaro,
disilluso di ciò che hai avuto
per dieci anni dentro, così chiaro
che tra mondo e mente quasi era un idillio:
e ha la tua stanchezza – un po’ volgare –
una smorfia di vecchio figlio
di immigrati meridionali
affamati e vili dietro il cipiglio
di poveri arrivati, d’ingenui dottrinari.
Hai voluto che la tua vita fosse
una lotta. Ed eccola ora sui binari
morti, ecco cascare le rosse
bandiere, senza vento.
[…]
Poi il canto, che s’era levato
gioioso, disperato, cessa, e il vecchio
lascia cadere la bandiera, e lento,
con le lacrime agli occhi,
si ricalca in capo il suo berretto.
Su questa baraonda della Villa, il buio
che sommerge la disperata allegria,
è, forse, più l’ombra del dubbio
che la precoce notte. È la nostalgia
dei vecchi tempi, la paura, pur bandita,
dell’errore, che spira tanta malinconia
– non l’aria d’autunno, o una sopita
pioggia – sulla sfiorita festa.
Ma in questa malinconia è la vita.
(P.P. Pasolini, Una polemica in versi, da Le ceneri di Gramsci, Einaudi, Torino 1981)

Alla polemica con il PCI non sfuggono i primi due romanzi pubblicati da Pasolini. Del 1955 è Ragazzi di vita che segna l’inizio della sua notorietà e che solleva le critiche di una parte dei commentatori della stampa comunista. In più di un caso, tali critiche coincisero con altre, analoghe, provenienti da organi di informazione di segno politico opposto.

“Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo del sottoproletariato romano, ma ha come contenuto reale del suo interesse il gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e del torbido”, è il commento Carlo Salinari (dirigente del Pci). E quello di Giovanni Berlinguer non è da meno: “Tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini, conoscenza superficiale e deformata della realtà, morboso compiacimento degli aspetti più torbidi di una verità complessa e multiforme” (soltanto in anni recenti Giovanni Berlinguer dichiarerà errati i propri giudizi sul primo romanzo pubblicato da Pasolini).

Altrettante polemiche vi saranno su Una vita violenta, del quale Pasolini aveva detto: “La mia intenzione era di scrivere un romanzo socialista”. Sulla rivista del Pci, “Rinascita”, il senatore Mario Montagnana, cognato di Togliatti, indirizzerà una lettera al direttore: “Pasolini riserva le volgarità e le oscenità, le parolacce al mondo della povera gente. […] Si ha la sensazione che Pasolini non ami la povera gente, disprezzi in genere gli abitanti delle borgate romane e, ancor più, disprezzi (non trovo altra parola) il nostro partito […] Non è forse abbastanza per farti indignare?”. Nel numero successivo di “Rinascita”, la risposta giunse da un altro esponente comunista, Edoardo D’Onofrio: “Io credo che uno dei motivi che spinge alcuni nostri compagni a non valutare giustamente il romanzo Una vita violenta di Pasolini dipenda in gran parte dal fatto che essi non conoscono l’importanza politica e sociale della presenza a Roma di un numeroso sottoproletariato […] Pasolini non nasconde la verità per carità di partito; dice le cose così come stanno; né pretende che un momento dello sviluppo del partito nelle borgate sia lo sviluppo stesso o il risultato dello sviluppo”.

Pasolini fu poi nuovamente attaccato da parte comunista quando, nel dicembre 1961, pubblicò sull’”Avanti!” la poesia Nenni:

[…]
Dal quarantotto siamo all’opposizione:
dodici anni di una vita: da lei
tutta dedicata a questa lotta – da me,
in gran parte, seppure in privato.
[…]
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce.
[...]

1960: i morti di Reggio Emilia

Il giugno-luglio 1960 è segnato da una grave crisi politica che scuote l’Italia: Fernando Tambroni, democristiano, forma un governo monocolore sostenuto dai neofascisti del Msi. È l’”anticamera” di un colpo di stato di destra nel nostro paese. Il 28 giugno ’60 si tiene a Genova una imponente manifestazione popolare antifascista; il 30 un nuovo corteo cittadino viene affrontato dalla polizia, e negli incidenti rimangono feriti 83 manifestanti. La protesta antifascista si diffonde in altre città e il governo Tambroni sceglie la linea dura per fronteggiare e reprimere il dilagare delle manifestazioni di piazza. Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti; ma i fatti più gravi accadono a Reggio Emilia: nel corso di una delle manifestazioni seguite ai fatti di Roma la polizia uccide cinque manifestanti comunisti: Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. La Cgil proclama, da sola, uno sciopero generale. La tensione sociopolitica nata a Genova e dilagata nel paese porterà alle dimissioni di Tambroni il 19 luglio 1960.

Le vicende private e giudiziarie di Pasolini – sarà imputato, nel corso di trentatré anni, in ventisette processi contro sue opere letterarie e cinematografiche: processi che si concluderanno sempre con piene assoluzioni (e questo elemento ne attesta la pretestuosità) – si intrecciano in questi anni inscindibilmente con quelle politiche.

Seppure non iscritto al Pci Pasolini, quale simpatizzante e dichiaratamente elettore di quel partito, è un letterato scomodo per il Pci a causa della sua omosessualità. Così è scritto in una nota dell’agenzia Fert il 14 luglio 1960: “La Fert apprende che l’on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori culturali e stampa del partito l’invito ad andare cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L’iniziativa di Togliatti che riscontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il Pci, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l’attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l’intervento del magistrato. I difensori del reprobo in seno al Pci sono tuttavia parecchi, e sembra che i deputati Alicata e Ingrao siano del parere di conservare Pasolini al Pci”.

1960: la collaborazione di Pasolini con “Vie Nuove”

Maria Antonietta Macciocchi – direttrice di “Vie Nuove” [periodico del Pci, nda]: propose a Pasolini una collaborazione con la rivista, cosa che avvenne a partire dal maggio 1960 – dice del poeta: “Pasolini era l’intellettuale più dolce, più delicato, più disponibile che avessi conosciuto. Era più facile ‘dirigere’ lui che il redattore più qualificato con la tessera del Pci. Oltre la rubrica personale, scriveva gli articoli che gli chiedevo sui soggetti più disparati […]“.

La Macciocchi scrive a Pasolini il 4 agosto: “Le invio il disco di ‘Vie Nuove’ sui fatti di Reggio Emilia, e la lettera di un lettore che si riferisce ad essi […] Io ebbi a Reggio Emilia questo nastro da un commesso di un negozio di tessuti, che si era portato là il registratore per registrare il comizio; e, invece, finì con il registrare l’agghiacciante sparatoria che lei udrà, non una guerra, ma una fredda carneficina”. Pasolini rispose al lettore, nella rubrica su “Vie Nuove”: “I critici stilistici dicono che ogni opera ha la sua ‘integrazione figurale’: ossia ogni opera, nell’atto di essere scritta o letta, brano per brano, pagina per pagina, parola per parola, si integra in una sua totalità immanente ad essa, in una sua ideale conclusione che le dà continuamente senso e unità. Così per questo disco – è atroce dirlo – la integrazione figurale, che gli dà quasi una dignità estetica, è la morte dei giovani lavoratori di Reggio, è la calcolata brutalità della polizia […] Quello che colpisce soprattutto […] è la freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento […]“

Pasolini instaura con i lettori di “Vie Nuove”, per lo più comunisti, un discorso molto ampio che abbraccia tutte le problematiche dei primi anni sessanta. Con estrema semplicità Pasolini svolge sulle pagine del periodico il proprio marxismo, e quella “contraddizione” tra l’essere con Gramsci o nelle “buie viscere” che segna un momento fondamentale della sua poetica. Così Pasolini scrive in un articolo del 3 maggio 1962 intitolato “Cultura contro nevrosi”: “Essere marxisti, oggi, in un paese borghese, significa essere ancora in parte borghesi. Fin che i marxisti non si renderanno conto di questo, non potranno mai essere del tutto sinceri con se stessi. La loro infanzia, la loro formazione, le loro condizioni di vita, il loro rapporti con la società, sono ancora oggettivamente borghesi. La loro ‘esistenza’ è borghese, anche se la loro ‘coscienza’ è marxista”.
L’accettazione del marxismo va di pari passo con la puntuale indicazione dei fattori di crisi del movimento marxista, che è soprattutto crisi dei partiti di ispirazione marxista (da un articolo su “Vie Nuove” del 15 luglio 1965 intitolato “Due crisi”): “Quello del capitalismo è un violento sviluppo, che, come dicevo in altre lettere precedenti, si presenta addirittura, al limite, come ‘rivoluzione interna’, che viene a modificare addirittura certe strutture del capitalismo classico: c’è per esempio nei paesi capitalistici molto evoluti un superamento delle strutture familiari e confessionali.. La crisi del marxismo è proprio dovuta a questo sviluppo in qualche modo rivoluzionario del neo-capitalismo. [...] Il bersaglio contro cui il marxismo ha sparato in tutti questi decenni, sta cambiando, pone delle alternative in certo modo impreviste. Di qui la crisi dei partiti marxisti. Di qui la necessità di prenderne coscienza, fin che il marxismo resta la vera grande alternativa dell’umanità”.

A Pasolini le contestazioni dell’estrema destra

In quei primi anni Sessanta Pasolini inizia a girare film interamente da lui ideati. Da subito diviene “rituale” la contestazione violenta dei neofascisti alle proiezioni dei film che il regista presenta.

Aggressioni avvengono nel 1961, a Roma, quando Accattone viene proiettato per la prima volta, dopo due mesi di attesa del visto della censura: gruppi di neofascisti provocano tafferugli, aggredendo gli spettatori. Il commento di Pasolini in questo caso è: “La pubblica opinione si è ribellata contro di me per una sorta di indefinibile odio razzistico, che come tutti i razzismi, era irrazionale. Non poteva accettare Accattone e tutti i personaggi sottoproletari.” Le stesse gazzarre contro Pasolini e il pubblico vengono inscenate l’anno successivo per la prima proiezione di Mamma Roma a Venezia. A Roma, poi, gruppi di giovani appartenenti a “Avanguardia nazionale” e alla “Giovane Italia” inscenano tumulti e risse alle prime visioni del film, incitati e difesi dai loro giornali.

Il ’63 è la volta de La ricotta a subire contestazioni, questa volta con l’accusa di “vilipendio alla religione di Stato”. Ma più che quest’ultimo motivo, ciò che scontentò tutti fu la “filosofia” che vi si esprimeva. Pasolini dichiarava in quei giorni: “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo”.E tale filosofia veniva sostenuta nel film da Orson Welles che, impersonando il regista del “film nel film” che Pasolini girava, denunciava: “L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa. (“Ed ecco scontentati così i partiti di sinistra come quelli di destra”, fu il commento di Alberto Moravia) […] L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista (“Ed ecco scontentati tutti quanti”, concluse lo stesso Moravia).

L’idea di una nuova preistoria

Nel 1963, quasi contemporaneamente alla lavorazione de La ricotta, gli viene proposto l’allestimento di un film-montaggio sugli avvenimenti dell’ultimo decennio, La rabbia, tratto da sequenze di cinegiornali. Parlando di questo suo film (tutto politico), Pasolini afferma che con esso intendeva dire “una cosa un po’ confusa in me, un’idea irrazionale ancora non ben definita, non determinata […] È l’idea di una nuova preistoria. E cioè i miei sottoproletari vivono ancora nell’antica preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria. […] Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita”.

Discredito, denigrazione e diffamazione

Agli attacchi si affiancano sempre più spesso denigrazioni e critiche astiose e mistificanti che vengono dalla stampa di tutte le parti politiche. Nella sua rubrica su “Vie Nuove”, Pasolini denuncia questi atteggiamenti e traccia un quadro generale della situazione socio-politica e della sua in particolare, come scrittore i cui contenuti e messaggi vengono sempre più spesso stravolti; rivolgendosi al “lettore” della rivista, scrive: “Io patisco ciò che di peggio può patire uno scrittore. La mistificazione della mia opera: una mistificazione totale, completa, irrimediabile. Una vera e propria operazione industriale. Tutto quanto io dico e scrivo subisce, attraverso l’interpretazione calcolata della stampa ‘libera’, una metamorfosi implacabile: discredito, denigrazione e diffamazione, che, un po’ alla volta, finiscono di essere dei puri e semplici strumenti teppistici, e diventano una realtà, che trasforma sociologicamente il mio stile. Lei sa che il testo non vive nella solitudine di un’anima, ma vive in una cerchia sociale. Esiste in quanto ha in sé la possibilità di un rapporto con la comunità. Ora, se questa comunità – attraverso un’apposita operazione di chi ha il potere e i mezzi di diffusione ideologica – comprende il testo di uno scrittore in modo diverso da quello che è, accade pian piano una cosa ineluttabile: che il testo – almeno per la durata della generazione – costituisce la cerchia sociale di esso, diventa realmente qualcosa di diverso da quello che esso è. [...] Mi rendo conto proprio in questi mesi di quanto grande sia la mia tragedia di scrittore nel mondo che lei dice libero e democratico. I miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d’occhio il loro ‘significato’, per aggiunte e falsificazioni continue, diuturne, dilaganti: per una interpretazione denigratoria portata a un grado di intensità e di ferocia mai viste. I miei testi deperiscono effettivamente, i significati delle mie parole hanno una reale depressione espressiva fino a essere quelli che la gente (intesa come massa guidata dal potere industriale e dal susseguente conformismo statale) vuole che siano. Piano piano anche ad alto livello questa mistificazione acquista peso e quasi ragione d’essere. Ormai anche i critici attendibili e altamente qualificati non possono non tener conto dell’aggiunta di significato data ai miei testi dalla denigrazione borghese, cioè dalla mia cerchia sociologica, cioè dalla mia nazione. E il loro giudizio comincia ad essere meno libero e sicuro. [...] Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione industriale. Lei ne è già una vittima, in quanto il suo giudizio non è libero proprio nell’atto in cui crede di meglio attuare la propria libertà; io sono un’altra vittima in quanto la mia libera espressione viene fatta passare per ‘altra da quella che essa è’. Il mondo si incammina per una strada orribile: il neocapitalismo illuminato e socialdemocratico, in realtà più duro e feroce che mai”.

1964. Dopo Il Vangelo secondo Matteo

Anche dopo la presentazione del Vangelo secondo Matteo “l’atteggiamento della sinistra nei suoi confronti”, dice Naldini nel suo già citato Pasolini, una vita, “alla quale egli non ha mai smesso di appartenere ideologicamente e di condividerne le lotte con passione”, non finiva di tormentarlo.

Rivolgendosi a Mario Alicata, un dirigente del Pci, Pasolini polemicamente così si esprime: “[…] ti ricordo la frase ‘Dite sì se è sì, no se è no: tutto il resto viene dal Maligno’. Devi dirmi con coraggio se tu e la tua cerchia, a me, dite sì o no. Non perché questo possa contare sulla mia reale e profonda ideologia e fede comunista, ma perché possa aiutarmi nella mia chiarezza e nei miei atteggiamenti pratici. […] Ora, capisco che l’ambiguità dell’Unità e del Paese Sera, se è dettata da ragioni pratiche di condotta, è dettata anche da più profondi motivi magari in parte inconsci, per esempio una inconscia avversione moralistica e piccolo-borghese nei miei riguardi”.

Verrà qualcun altro a prendere la mia bandiera

Anche il film successivo Uccellacci e uccellini suscita polemiche. In una delle interviste rilasciate a Jean Duflot (Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro), lo stesso Pasolini fa una brevissima sintesi dei suoi rapporti con il Pci fino al 1965: “Se sono marxista, questo marxismo è stato sempre estremamente critico nei confronti dei comunisti ufficiali, e specie nei confronti del Pci; ho sempre fatto parte di una minoranza situata al di fuori del partito, sin dalla mia prima opera poetica, Le ceneri di Gramsci. Non ci sono mai stati grandi mutamenti nella mia polemica con loro. Eppure, fino a quel momento ero sempre stato un compagno di strada relativamente ortodosso”.

Nel corso di un’intervista nella quale Giorgio Bocca gli chiede: “Lei si proclama arrabbiato, uno dei rari arrabbiati italiani, perseguitato per amore della rabbia. Eppure va a finire regolarmente che la sua rabbia si risolve in voglia di vita, in opere utili agli altri, in ricerche rischiose fatte anche per gli altri. Che effetto ha avuto per esempio il suo ultimo film? Pasolini risponde: “Come sempre ambiguo. Io conduco una guerra su due fronti, contro la piccola borghesia e contro quel suo specchio che è certo conformismo di sinistra. E così scontento tutti, mi inimico tutti, sono costretto a tenere relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue”.

I giovani di oggi non si rendono conto di quanto sia repellente un piccolo-borghese

In pieno Sessantotto, quando scoppia la contestazione studentesca, che tenta di saldarsi – nelle punte che più avversavano gli aspetti socio-politici di una società italiana che stava degenerando in modelli sempre più piccolo-borghesi – anche con le lotte operaie che in quegli anni strapperanno al padronato molte delle conquiste ancora attuali ai giorni nostri, Pasolini scrive l’ormai famoso Il Pci ai giovani! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da un Apologo) che scatenò discussioni e polemiche durissime.

In effetti, vi erano, all’interno del movimento degli studenti, ispirazioni ideologiche disparate che andavano dal marxismo allo stalinismo, dall’acritica assunzione dei principi della rivoluzione cinese alle idee portanti della terza Internazionale. In moltissimi casi vi era poi la sola volontà di “seguire gli altri” acriticamente. Emblematico, in un certo senso, è un mio personale ricordo: la figlia del mio datore di lavoro dell’epoca rientrava a casa, si spogliava della pelliccia e indossava un eskimo, il tutto per andare a sentire un discorso di Mario Capanna, o per sfilare in un corteo studentesco…

Tutto ciò produceva un frazionismo esasperato: sia all’interno dei vari gruppi extraparlamentari, che si costituirono in quegli anni, sia tra i diversi gruppi, il grado di conflittualità, a volte anche solo verbale, era sempre elevato. E vi erano certamente anche alcuni di coloro ai quali Pasolini si rivolge

A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.
[...]
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo-borghesi, amici.
[…]

“Inoltre i giovani di oggi (che si sbrighino poi ad abbandonare l’orrenda denominazione classista di studenti, e a diventare dei giovani intellettuali) non si rendono conto di quanto sia repellente un piccolo-borghese […]“
[dall'Apologo]

ma nei confronti dei quali, probabilmente, dovevano essere evitate le generalizzazioni. Il Sessantotto è senza dubbio un avvenimento storico complesso e, come tale, “incappa in due griglie interpretative divergenti, se non opposte. Ci sono i sostenitori della palingenesi e gli assertori del tutto negativo, tutto sbagliato”, scrive Mario Capanna (Formidabili quegli anni) che di quelle lotte fu tra i protagonisti. E continua dicendo che una delle chiavi per giubilare il Sessantotto è stata la sua idealizzazione.

Ciò che invece scrisse allora Pasolini sollevò, come si è già ricordato, una marea di critiche e di polemiche. Per la destra, fautrice di “ordine” fu facile la strumentalizzazione e l’utilizzo dei concetti espressi da Pasolini contro gli studenti, definiti “figli di papà”.

Nell’ottobre del 1968, Pasolini scrisse nella rubrica “Il Caos”: “Non è stato, questo, un anno glorioso per la nostra vita nazionale, e neanche internazionale. Per un viaggio sulla luna, quanti regressi sulla terra. È stato un anno di restaurazione. Ciò che è più doloroso constatare è stata la fine del Movimento Studentesco, se di fine si può parlare (ma spero di no). In realtà la novità che gli studenti hanno portato nel mondo l’anno scorso (i nuovi aspetti del potere e la sostanziale e drammatica attualità della lotta di classe) ha continuato a operare dentro di noi, uomini maturi, non solo per quest’anno, ma, credo, ormai, per tutto il resto della nostra vita. Le ingiuste e fanatiche accuse di integrazione rivolte a noi dagli studenti, in fondo, erano giuste e oggettive. E – male, naturalmente con tutto il peso dei vecchi peccati – cercheremo di non dimenticarcelo più”.

Nel 1968, a Pasolini viene affidata una rubrica intitolata “Il Caos” sul settimanale “Tempo illustrato”. Davide Lajolo, dirigente del Pci, gli scrive: “Un colloquio nessuno lo può tenere meglio di te proprio perché sono in molti da ogni parte che ce l’hanno con te”. La rubrica deve costituire “un fronte di piccole battaglie quotidiane” da impegnare contro i terrorismi di destra e di sinistra e contro la borghesia, intesa da Pasolini “come una vera e propria malattia”.

Sul Pci ai giovani!

“[...] Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti ‘sdoppiati’ cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una ‘captatio malevolentiae’: le virgolette sono perciò quelle della provocazione. [...]“. Questo scrisse nell’Apologo della sua poesia (Il Pci ai giovani!) Pasolini stesso.

Ecco il punto: la provocazione. Provocando gli studenti (“in che altro modo mettermi in rapporto con loro, se non così?”) Pasolini intendeva stimolarli ad analizzare, “al di fuori così della sociologia come dei classici del marxismo”, la loro condizione di piccolo-borghesi; a togliersi di dosso tale loro condizione utilizzando la loro intelligenza in senso critico (“abbandonando la propria autodefinizione ontologica e tautologica di ‘studenti’ e accettando di essere semplicemente degli ‘intellettuali’”) e “operando l’ultima scelta ancora possibile [...] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma Pasolini non provoca soltanto, lancia affermazioni su cui ritornerà in interviste ed articoli, che colgono da subito i limiti del nascente movimento. Pasolini coglie nella maggioranza degli studenti un presente (masse dissenzienti della sottocultura consumistica del neo-capitalismo), che ha alle spalle un passato (la cultura dei Padri, da cui hanno assunto linguaggio, conformismo e desiderio di potere) ed un futuro che sempre più intravede senza speranze: quello che chiamerà, qualche anno dopo, un vero genocidio culturale e antropologico [la "mutazione antropologica" consistente nella omologazione e nel consumismo, nda].

Un ulteriore elemento di analisi ci è offerto ancora da Pasolini, che nella rubrica “Il Caos” su “Tempo” scriveva il 17 maggio 1969: “[...] Proprio un anno fa ho scritto una poesia sugli studenti, che la massa degli studenti, innocentemente, ha ‘ricevuto’ come si riceve un prodotto di massa: cioè alienandolo dalla sua natura, attraverso la più elementare semplificazione. Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista ‘per pochi’, ‘Nuovi Argomenti’, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, ‘L’Espresso’ (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (‘Vi odio, cari studenti’) che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno a uno quei versi nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano (per ‘Nuovi Argomenti’) a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa (‘L’Espresso’). Mi limiterò a una nota per quel che riguarda il passo sui poliziotti. Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma [...]; nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità anche di fare di questi poveri deglì strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ‘ghetti’ particolari, in cui la ‘qualità di vita’ è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università”.

Già nella poesia si poteva capire quanta ironia e quanti livelli di lettura ci fossero nel testo, ma in molti non seppero (o non vollero) cogliere queste sfumature. Il discorso su quanto scritto da Pasolini lo si potrebbe anche chiudere qui, non fosse che di quella poesia, indipendentemente dalle successive precisazioni dell’autore, nella “testa vuota della massa consumatrice” ANCORA OGGI è rimasta solo la traccia superficiale della prima lettura. Anche in tempi recenti si è cercato di strumentalizzare quelle parole quasi fossero una semplicistica ed acritica presa di posizione a favore dei celerini e contro gli studenti, e quasi le si potesse usare come una clava virtuale per demolire la nuova stagione di rinnovate lotte sociali, operaie e studentesche. Per questi motivi è giusto approfondire la questione. Pasolini non era certo uno sprovveduto. Sapeva che le forze dell’ordine, in Italia come all’estero, si erano ferocemente distinte per numerosi omicidi a danni di manifestanti, e questo ancora prima del 1968. Sapeva che il nocciolo della questione non stava nel poliziotto sottoproletario malpagato, ma nel ruolo che a questo era stato attribuito. Sapeva, in altre parole, che sicuramente esistevano poliziotti “buoni” e poliziotti “cattivi”, ma che, in quanto tutori di un dato ordine costituito, TUTTI i poliziotti rappresentavano un’unica entità omogenea, usata come strumento di repressione. La divisione del mondo fra ricchi e poveri andava inasprendosi, e il vero nemico (il Potere) era abbastanza scaltro da riuscire a utilizzare strumentalmente anche “certi” poveri verso “altri” poveri: nella sua poesia Pasolini intendeva sottolineare quanto di paradossale e pericoloso ci fosse in tutto questo.

Ma se la scandalosa strumentalizzazione delle parole di Pasolini da parte della destra è comprensibile, nella perversa logica della lotta politica “all’italiana” (fatta spesso NON di fatti e di idee, ma di uso distorto dei primi e delle seconde), la miopia della sinistra di fronte all’articolata presa di posizione dell’intellettuale risulta meno scusabile; e soprattutto sembra avere avuto effetti anche più disastrosi.

Il rapporto con i movimenti del ’68: la Fgci, Lotta Continua, i Collettivi studenteschi

Trasumanar e organizzar, un libro di poesie scritto tra il 1968 e il ‘71, è in gran parte dedicato alla critica della rivolta studentesca. Gli studenti formano ormai la nuova opinione pubblica, ma ogni opinione pubblica è sede di Terrore: “il grido estremistico / li salva come una medicina che fa tacere la realtà”. Pasolini aveva criticato e criticava il Pci per il suo stalinismo e il suo conformismo, e tuttavia egli vi si sentiva sempre legato per un patto di lealtà verso gli operai e dunque verso il loro partito, anche se ormai il Pci era diventato una istituzione. Anche gli studenti contestatori criticavano aspramente il Pci, ma con una opposizione netta, quindi non dialettica. Anche in questo Pasolini intravedeva la natura borghese di questa rivolta.

Si sarebbe dovuto soprattutto conoscere quali furono i comportamenti reali, pratici, di Pasolini con i movimenti giovanili del ’68. E se Pasolini, è notorio, non aveva rapporti idilliaci con il Pci stabilì comunque una collaborazione stretta (presenze al loro fianco in manifestazioni di piazza, scritti sul loro giornale) con la Fgci (l’organizzazione giovanile del Partito comunista) con la quale in particolare contestò la guerra del Vietnam, e non fece mancare il proprio aiuto, anche materiale, ad altri movimenti e collettivi. Raggiunse molte scuole, principalmente nelle Regioni del Sud, per tenere conferenze, dibattiti e contraddittori promossi dai collettivi di vari Istituti scolastici.

In particolare, con Lotta Continua il suo fu un lungo rapporto di stima e collaborazione. Non solo è stato finanziatore della stampa del movimento, ma nel 1971 ha assunto l’incarico di Direttore responsabile del quotidiano del movimento quando questo giornale ne fu sprovvisto, a causa di condanne per reati d’opinione dei precedenti direttori, e subì a sua volta uno dei numerosi processi intentatigli.

Le sue critiche alla contestazione studentesca non impedirono a Pasolini di scorgervi anche gli elementi di positiva novità: il ’68 studentesco si saldò con il ’69 operaio: i collettivi e gli stessi gruppi extraparlamentari – Lotta Continua in particolare – mettevano al primo posto la presenza degli operai e le tematiche delle fabbriche; non solo, tra studenti e operai si viveva assieme, si andava in vacanza assieme; alcuni laureati, come scelta di vita, andarono per anni a lavorare in fabbrica, operai tra operai.

Sulla questione di Piazza Fontana, Pasolini si schierò con i gruppi extraparlamentari contro la tesi governativa degli “opposti estremismi” tendente a equiparare i gruppi di estrema destra e di estrema sinistra come responsabili di quell’attentato terroristico e di tanti altri. Fu anche convinto che gli studenti avessero “svegliato dal sonno” i sindacati ed avessero aiutato le lotte operaie, pur con le limitazioni sopra osservate.

Nel 1970 collaborò con Lotta Continua per realizzare 12 dicembre, un film-documentario sulle bombe di Piazza Fontana e più in generale sulla situazione socio-politica italiana. Fu una scelta di “testimonianza politica”. Ma terminato questo impegno Pasolini sceglierà di “gettare il suo corpo nella lotta”. E sarà una lotta individuale, diretta, urlata contro il Palazzo, ma anche contro i vari “conformismi di sinistra”. Un Pasolini per certi versi nuovo, il Pasolini “luterano” e “corsaro” – pubblicato a partire dal 1973 dal “Corriere della Sera” – ancora oggi “tremendamente” attuale.

Pasolini è stato l’artista (chi crea) e forse l’intellettuale (chi pensa), che più ha compreso il ‘68 anche nei suoi limiti profondi. E lo ha capito perché, oltre ad altro, è stato un grande semiologo della società, sulla quale ha proiettato uno sguardo analitico e penetrante per almeno due ragioni: 1) perché conosceva direttamente la realtà sociale, soprattutto quella giovanile e più marginale, quella cioè che presentava gli indizi più precoci di dove l’Italia stava andando. Il suo strumento conoscitivo era, infatti, la sua esistenza, la sua diversità, l’amore verso i ragazzi sottoproletari, che stavano deformandosi anima e corpo a causa di questo sviluppo. 2) perché il suo sguardo non era soltanto acutamente descrittivo, ma antropologico. Basterebbe, per conprenderlo, leggere o ri-leggere quel piccolo capolavoro sociologico-letterario che è Gennariello da Lettere luterane, per comprendere l’originalità e la ricchezza del suo pensiero.

A.M.
www.pasolini.net
5 ottobre 2010

LEGGI ANCHE:

12 dicembre
Un documentario ideato da Pasolini
e girato dopo la strage di Piazza Fontana
del Centro Sociale Autogestito Mezza Canaja
di Senigallia, 28 dicembre 2006

Pasolini e la sua “lotta continua”:
il documentario 12 dicembre
di Pasquale Colizzi

NOTE

http://paginecorsare.myblog.it/archive/2010/10/04/pier-paolo-pasolini-i-suoi-rapporti-con-la-politica-e-i-movi.html


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