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Piero Marelli: Il romanzo dei mesi

Da Narcyso

Piero Marelli, CARTA DI VETRO, pM* tipografo di poesia, 2014
Introduzione di Sebastiano Aglieco

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Piero Marelli e Diana Battagia

Il romanzo dei mesi

Seduti intorno al buio di gennaio per non pensare di vivere come l’inverno. Per non dimenticare a riconoscere “…la condanna degli alberi / che chiedono sottovoce un’altra resurrezione“.

E dunque in questa poesia, alti sono i compiti, i richiami: comprendi, racconta, non dimenticare… “Parlare, alle volte parlare non serve a niente, ma parla“. Parlare, però, serve a ricordare i nomi – che sono le cose stesse – perché malgrado le foglie muoiano e rinascano da sempre, noi le chiamiamo da sempre foglie e il nome appartiene loro intimamente.

Il nome non le lascia sole, esse sono accompagnate nel loro destino di dimenticanza verso la resurrezione della lingua; questa le conserva, le restituisce alla voce che le dovrà nominare ancora una volta.

Per questo compito del proseguire, del non fermarsi mai davanti a un punto, la poesia di Piero Marelli si è dotata da tempo di una fionda propulsiva: è il dominio, il rischio o il dono della possibilità; del “se”. Ogni cosa “è” solo “se” è possibile. La possibilità della resistenza, allora, è di competenza dell’uomo e della parola; gli oggetti vivono una doppia vita, quella del tempo delle stagioni, con addosso il peso di una giustizia inesorabile e quella delle parole che li rinomina, li riconsegna.

Questo compito, nell’opera di Marelli, ha a che fare con un forte vitalismo, un gesto che si spinge sempre oltre, “contro la superbia del Nulla”.

Cosa vuol dire raccontare quando senti qualcosa / che è da difficile da sfamare” (…) Questo è quello che può regalare / l’infinito che ti aspetta dopo la pagina conclusiva“.

Così, tutte queste cose che conoscono la metamorfosi dei mesi – gli animali, le piante, il cielo, i luoghi di sempre, “la vecchia bicicletta prima promessa di libertà” –  sono pensati e descritti nella loro caducità quotidiana; perfino gli uomini che li accompagnano come fratelli, complici, carnefici, inseriti in un poetare amplissimo fatto di condizioni, ad indicare la possibilità che essi possano cadere nell’ignoranza, nella sgretolazione dell’inverno, oppure nella speranza che ci sia ancora  qualcosa da imparare, da conservare.

Questo “romanzo dei mesi” avviene nello sfondo di una lingua vicina morte e alla resurrezione: “…e per questo che di giorno / il sangue, e di notte la mente, non riposano mai  / all’ombra di un dialetto dalla fame insaziabile“.

Il dialetto, come diceva Manlio Sgalambro, è “il momento animale della lingua..duro linguaggio della necessità…mortale…la lingua è storica, il dialetto è cosmico…per chi muore non c’è altra lingua che il suo dialetto“…

Nel racconto di questi mesi, Piero Marelli prova a spezzare la circolarità delle stagioni, di un tempo che non si conclude e ci trascina verso l’oblio, semplicemente raccontando il romanzo che ogni volta possiamo immaginare come possibilità e dono: “Non è soltanto inchiostro quello che cade, / ma le pagine devono andare dove il mondo può ancora credere / nella sua riuscita…“.

Nell’incitazione a “Non esagerare!“, perché “tutto continua come sempre“, sempre, in ogni tempo e in ogni luogo s’insinua la presenza vivissima e umanissima di una presenza che “porta i suoi ani…/ la sua maniera di salutare… / l’occhiata indagatrice…”. E quindi la forza e la necessità della poesia.

Sebastiano Aglieco

(N.B. Ho fatto riferimento solo alla versione in italiano del testo)

 *

 Novembre 
Non esagerare! Tutto continua come sempre:
il sole e la pioggia lavorano ostinati la stessa pietra.
Ma lei è venuta. Ha portato i suoi anni, e non si vedono,
il suo modo di salutare ha portato via l’occhiata indagatrice
che misurava il colore dei capelli, le righe del sorridere
che resistono, quel piccolo adagio del rispondere
segno di un primo dolore, giovane per fiducia nel tempo
(sempre che il tempo esista), e allora lampione abbassati,
fammi vedere meglio la sua faccia, alzati fontana,
perché la sua sete non ha bisogno di sottomettersi,
è l’abitudine alla sera che costringe le insegne
ad accendersi ( e si accendono anche i tram), intanto che continua
a ricordare i suoi morti, con l’idea di farli tornare almeno
nelle promesse e che io l’osservo quieto contro la luce
delle vetrine, contro le ore che la cercano, il momento preciso
che sono io a decidere la bellezza e che non sparirà mai,
persuasiva nel raccontare il bene e le stregonerie
del vivere, contro le ore che la cercano, il momento preciso
in piena notte quando una mano leggera calma
il mio fiato, lei che sente proprio in quelle ore
il conforto dell’erba nascente, che indovina i colori
dei fiori di campo e le strade di una città lontana,
nomi-candela che altri nomi possono
spegnere senza soffiare troppo.
 

 


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