Magazine Cinema
di Kim Ki-Duk (Corea del Sud, 2012)
con Lee Jeong-Jin, Jo Min-Soo
VOTO: ****
Un giovane strozzino vaga per i bassifondi di Seul spezzando gambe e braccia a chi non è in grado di pagare i debiti, in modo da intascare i soldi dell'assicurazione. Un giorno una donna bussa alla porta del suo appartamento, affermando di essere sua madre. Lui prima la respinge brutalmente, ma la donna non demorde fino a quando non riesce a farsi accettare dal presunto figlio. Che, da quel momento, decide di abbandonare la sua crudele attività per cercare di condurre una vita normale. Ma un giorno la donna scompare (rapimento?) gettandolo di nuovo nello sconforto. Intanto, fuori, le vittime orribilmente mutilate cadono nella disperazione e nell'indigenza, desiderose solo di vendetta.
Il diciottesimo lungometraggio di Kim Ki-Duk è una discesa agli inferi, un feroce atto di accusa contro il capitalismo e i grandi imperi finanziari, che gettano nella disperazione milioni di poveracci disposti a tutto pur di cercare di proseguire le proprie attività, diventate improvvisamente non concorrenziali con l'arrivo delle enormi multinazionali che controllano ogni settore manifatturiero.
Il regista mette in scena la storia disperata di un uomo che ignora cosa siano il perdono, l'umanità, la felicità. L'unico benessere, quello fisico, lo trova solo con la masturbazione, dimenandosi nel proprio letto. Il resto della sua vita è fatto di orrende violenze, lacrime, sangue, macabri pasti e penosi silenzi.
L'ultima opera di Kim Ki-Duk si chiama Pieta: il titolo originale è proprio in italiano (senza l'accento), e si rifà espressamente all'opera di Michelangelo, vale a dire una madre che tiene in braccio un figlio che non è più suo, malgrado lo abbia partorito. E il protagonista del film è, analogamente, un'anima dannata privata da sempre dell'abbraccio materno e condannata all'infelicità. La macchina da presa segue da vicino la sua brutale quotidianità, non risparmiandoci nulla delle atroci sofferenze che infierisce alle malcapitate vittime, nè dei suoi miseri e goffi tentativi di recuperare una 'verginità' affettiva nei confronti della misteriosa donna che gli ha cambiato la vita. Anche se, naturalmente, la situazione è molto più dolorosa di quello che lui s'immagina.
Opera durissima, sgradevole, violenta, dolorosa per gli occhi e per il cuore. Una delle più estreme per il regista, tornato a dirigere film dopo un lungo periodo di malattia e depressione. La visione non è una passeggiata, e per questo NON lo consigliamo a tutti. Ma se qualcuno vuole ammirare momenti di grande cinema e sequenze di inaudita commozione, questo 69. Leone d'Oro veneziano è un ottimo modo per gustarsi un film d'autore. L'importante è sapere a cosa si va incontro.
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