Vincitore Leone D’oro Festival del Cinema di Venezia 2012
Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine del tutto. Amore, odio, violenza, speranza, pietà, morte e vendetta
“Secondo me la vita è sadismo, autotortura e masochismo. Si torturano gli altri, siamo torturati e torturiamo noi stessi. Alla fine molti si accontentano dell’autotortura… Non c’è ragione per non odiare, detestare o non capire la vita umana. Ma anche così continuiamo a dimenticarcelo e, in un’ottica miope, abbiamo bisogno di tempo per guarire dal dolore, dall’odio e per perdonare. Perché vivere è così triste e deprimente, ogni giorno?” Kim Ki Duc
Metaforicamente spietato, allegoricamente crudele, irresistibilmente ironico e poetico è tornato Kim Ki Duc.
Kim Ki-Duk , cinquantaduenne coreano, personalità alquanto anomala nel panorama cinematografico internazionale, che prima di giungere alla pittura, suo più grande amore, ha svolto lavori di ogni tipo, giungendo al suo incontro con il cinema solamente negli ultimi anni. Senza alcuna esperienza o formazione in merito infatti , si impone immediatamente e senza fatica tra i registi di più alto spessore nel mondo del cinema. I suoi temi al limite della violenza disturbante e della più disarmante tenerezza , lo stile di ripresa quasi sempre sporco, ma formalmente schietto e lirico ne costituiscono da subito il tratto distintivo personale insieme a quel rigore minimale della ripresa che sublima le storie e i personaggi in una eterea stilizzazione spirituale rendendole quasi opere d’arte in grado di far vivere allo spettatore un’esperienza sempre prodigiosa e sensoriale.
E’ innegabile il fatto che ogni suo apparire nelle sale cinematografiche costituisca un motivo di grande emozione ed entusiasmo per noi cinefili.
Da quando infatti su quotidiani e tv si era diffusa la notizia della sua partecipazione al Festival del Cinema di Venezia nei siti che seguo – Mymovies, Libero Cinema in libera mente, Rifrazioni del cinema dell’oltre e altri – è stata tutta una festa, tutto in dibattito intorno ai suoi film, al suo minimalismo simbolico, alla sua crudezza sempre inedita e mai scontata , alla sua ironia folle, alle sue visioni metaforicamente brillanti ed eclettiche. Ma non solo. Tutti noi, affascinati dai suoi atroci microcosmi poetici, abbiamo discusso per giorni anche e soprattutto in merito a quella sua scomparsa dalle scene durata tre anni.
Le voci lo davano irreversibilmente malato e fuori dal mondo del cinema. Tre lunghi anni in cui Kim Ki Duk si è votato alla più assoluta solitudine , scegliendo di vivere come un eremita in una desolante casa di campagna, riducendo al minimo i suoi bisogni e costruendo da se utensili e oggetti di prima necessità. Un baratro, in cui era scivolato per la profonda depressione dovuta all’incidente avvenuto nel corso delle riprese di Dream, in cui la protagonista aveva rischiato di morire impiccata. Ma non basta. Mai saturi di parlare dei suoi 18 film all’attivo, la discussione è andata oltre, persino sul mistero del titolo. Un mistero che i più informati ci hanno riferito essere stato uno dei rompicapo di Venezia. La locandina originale infatti come si può ben vedere titola PIETA, mentre quella italiana intitola PIETA’. PIETA appariva nel programma del festival e in ogni altra citazione ufficiale, così come veniva riportato anche nel listino della casa di distribuzione italiana, la Good Films. Un refuso? Deformazione coreana del latino Pietas? Niente di tutto questo. Soltanto il palese riferimento alla Pietà di Michelangelo, che in tutto il mondo viene chiamata Pieta. L’accento finale infatti è pressochè sconosciuto in quasi tutte le lingue, a partire dall’universale inglese.
Ma tornando a questo memorabile film: di stomaco, cuore e mente è richiesta la più robusta dose per comprendere totalmente quest’opera. Un’opera spietata, dominata da spirito di vendetta e crudeltà, dalla violenza, dello shock e della trasgressione come nella migliore tradizione del cinema asiatico; un film ad alta cerebralità in cui si mescolano felicità e dramma , e che lascia il sipario aperto ad un’inquantificabile e indefinibile disperazione, come risposta esaustiva alle più comuni domande esistenzialiste. Cos’è l’amore? Cos’è la morte? Cos’è la vendetta? Cosa fa più male? Vivere senza amore o conoscere l’amore e poi perderlo per sempre? Cosa fa più male? La soddisfazione nel vendicarsi o negare se stessi ogni forma di pietà?.
Gang-do , giovane trentenne cresciuto in totale solitudine in un sobborgo di Seul ,perciò del tutto anaffettivo e asociale, lavora per un’organizzazione criminale come esattore di debiti . Egli ne è adetto alla riscossione , una riscossione che in un modo o nell’altro sarà certa perché nel momento in cui il debito non potrà essere saldato, Gang-do renderà i debitori invalidi, mozzando loro mani, spezzando gambe, costringendoli a buttarsi giù dai palazzi, rendendo così il debito risarcibile tramite assicurazione. Crudele e sadico, solitario e onanista , insensibile ad ogni supplica, il giovane conosce solo il linguaggio dell’abbandono e della ferocia brutale dove la pietà evocata dal titolo non trova spazi. Lui è fondamentalmente perverso, ma non lo sono da meno i debitori nel loro stoicismo masochista e quella donna che un giorno si presenta a lui come sua madre. Una donna che gli chiede perdono per averlo abbandonato fin dalla nascita e che osserverà con estrema indifferenza quella incarnazione del male che è suo figlio , che parteciperà alle sue uscite per la riscossione dei debiti e che lo aiuterà persino a masturbarsi mostrando quindi un risvolto del tutto inquietante dell’amore e della comprensione materne qui portate al limite dello scandalo . Dopo un approccio violento e tormentato tra i due, in cui il giovane sottopone a prove di verità prove nauseabonde tra cui il costringerla ad ingerire un pezzo della sua stessa carne o addirittura l’incesto che impatta sullo spettatore con una forza devastante, tra urla strazianti e dialoghi al limite della decenza, il giovane accetta sua madre e cambia. Ritrova l’affetto il calore e l’amore mai provati venendone travolto in un sentimento regressivo verso tappe di un’infanzia felice mai vissute. Ma l’amore, l’odio, la vendetta , sono tutte cose legate indissolubilmente dalla trama della vita, e quando il giovane ragazzo perderà quell’amore, il dolore diverrà insostenibile. La violenza è dunque una manifestazione costante della vita che sembra inevitabilmente attecchire grazie al denaro, mentre solo l’amore pare dare conforto alla povertà e nello strazio chi è costretto ad andare avanti in un mondo che sembra assomigliare a un gigantesco girone dantesco, un vero e proprio inferno in cui la vita è sacrificio.
Il film come nella migliore tradizione di Kim Ki Duc e più propriamente del cinema asiatico è pieno di poesia e tenerezza che si intrecciano alla più cruda spietatezza ed incredibile follia : la poesia, l’estetica, la solennità dell’immagine e del sentimento sono sempre indissolubilmente legati ad una tragica rappresentazione del dolore e della vendetta in un lucido neorealismo violento il cui messaggio arriva senza ruffianerie e senza lezioncine di retorica. L’hanno definito un film anticapitalista, un film sui sensi di colpa , l’avidità come elemento distruttore di ogni sentimento , ma in realtà Pietà è un film che mescola ironia e crudezza e pura beffa della sorte. Titola Mymovies.it, a mio avviso nella sfumatura più giusta : “ un film sulla sproporzione del patire umano” perché poco la società odierna è intrisa dalla pietà , soggiogata com’è dalla violenza. Simbolo ne sono anche tutti quegli animali che nel film finiscono in padella, quasi che la sopravvivenza possa essere garantita dal togliere la vita ad un altro. Anguille ,polli e conigli diversamente maciullati infatti non sono esentati dal loro destino che si presenta del tutto analogo a quello dell’uomo, morte e patimento. E’ questo un film nichilista e spirituale, intimo e sudicio, per questo più radicato nelle passioni , un martirio che non ammette vinti e vincitori poiché la vendetta non paga, non ricostituisce l’uomo di ciò di cui ha veramente bisogno: l’amore. Colpiscono gli sguardi carichi di tristezza che non saranno risollevati da alcuna grazia salvifica neanche nel finale degno di una tragedia greca che pare rimandare ad uno sguardo più intimo e universale con la bellissima immagine finale poetica: la morte sempre attaccata alle calcagna della vita che con essa fa il suo cammino lasciandosi alle spalle la sua scia di sangue. La vita come una sorta di processione funebre a cui non possono sottrarsi né vittime né carnefici.
Insomma cosa altro aggiungere? Si capisce che mi è piaciuto ? E non ci sono Virzì o Bellocchio che tengano davanti al turbamento che questo film riesce ad infondere.
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