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Premessa: io il cinema orientale difficilmente lo digerisco. Traumatizzata dall’esame di Storia del cinema del vicino ed estremo oriente all’università ho evitato di riaddentrarmi in questa filmografia ma…
Kim Ki-duk è Kim Ki-duk, e poi lo hanno premiato a Venezia con il Leone d’oro, vuoi non vederlo?
E così ieri ho ceduto, in una sala gremita, siamo rimasti tutti attoniti davanti a questa Pietà.
Gli elementi che avevano scosso il Lido, la violenza estrema, mentale e fisica, c’erano tutti però qualcosa non quadrava.
Partiamo dalla storia, ben concepita, con personaggi forti e con più ombre che luci sulla loro vita. Lee Gang-do è un giovane solitario che lavora sotto incarico riscuotendo i debiti di poveri operai che il più delle volte non hanno nulla da dargli. Così li storpia, incassano poi il premio dell’assicurazione come indennizzo. Un giorno viene seguito da una donna, si apposta sotto casa, lo aspetta davanti la porta… dice di essere sua madre, quella che lo ha abbandonato da piccolo costringendolo fin da subito a cavarsela da sé e probabilmente ad un destino così denigrante. Ma è davvero sua madre? Il dubbio, prima che al pubblico, si innesta a Lee, che la umilia costringendola a sevizie che silenziosamente ma in lacrime, questa accetta. Superata la prova di fiducia tra i due si instaura un improbabile rapporto volto a far dimenticare gli anni di reciproca solitudine, fino alla svolta, che non svelerò, che innalza i toni del film dando finalmente una rotta alla trama.
Sì, perché per almeno ¾ Pietà parla dell’insolita routine della vita di Lee, le aggressioni, il procacciamento del cibo, le voglie notturne… tutto ripetuto come un ciclo inarrestabile perché i sentimenti sono del tutti estranei nella sua vita. Nemmeno la pietà, quella invocata nel titolo, esiste. Solo nel finale dunque si arriva ad una accelerazione, proprio quando l’amore, quello verso una madre ritrovata, si è finalmente impossessato di lui.
Se a livello di trama il film si salva in extremis, a livello tecnico le scelte sono convenzionali. Lontani dalla natura incantevole di Primavera, estate, autunno, inverno e ancora Primavera, Pietà resta circoscritto in una città ingombra e derelitta, la cui lucentezza del centro fa a pugni con il degrado della periferia. La potenza visiva che la locandina lascia intendere non arriva, se non, anche qui, nel finale. Quella striscia rossa che segna un cammino, ne traccia la fine, si imprime nella mente.
Può bastare quindi un finale a fare di una pellicola la migliore della kermesse veneziana? Sembrerebbe di sì, ma perché il finale è preparato, tutto l’inizio, per quanto lento e infarcito di dialoghi sorpassabili (che con il doppiaggio non hanno certo guadagnato punti), è volto a questa fine. La violenza, lo sporco e la ferocia delle scene sono tutte in preparazione di uno sfogo conclusivo che annichilisce tutto il resto.
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