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Pietà di Kim Ki-duk

Creato il 20 aprile 2014 da Spaceoddity
Pietà di Kim Ki-duk[Corea] Pietà (2012) è il sedicesimo film del regista sudcoreano Kim Ki-duk. Com'è facile immaginare, il titolo è antifrastico e questa è una delle sue opere più crudeli, dove tutto sembra ribaltarsi contro un qualsiasi gesto di clemenza. Pietà è la storia di un giovane, Gang-Do (Jeong-jin Lee), che di "mestiere" fa l'usuraio e costringe le sue vittime a menomazioni di ogni tipo per acquisire i soldi dell'assicurazione in cambio dell'esiguo prestito elargito. Un giorno, appare una donna, Mi-son (Min-soo Jo), che afferma di essere sua madre e che lo segue con fare devoto, quando non addirittura servile, non solo senza chiedergli nulla in cambio, ma addirittura offrendosi in riscatto per tutto il danno che gli ha procurato la sua assenza subito dopo la nascita. In un primo momento, il rapporto è burrascoso, ma il giovane ci mette poco ad arrendersi e a rimanere schiavo di questo rapporto complesso che poggia sulla sua solitudine.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a personaggi isolati, vittime di un'assenza atroce, di un'incapacità radicale di trovarsi, di avere un motore o una bussola. Non c'è cammino, ma deriva spirituale; la grazia lascia il posto alla rivalsa, si vanificano tanto la memoria quanto l'oblio. È difficile anche stabilire di cosa vadano in cerca tutte queste persone. Non del denaro in sé, certo, anche se è l'origine e la fine di tutte le cose (e magari di tutte le storie), anche se il denaro è - a conti fatti - uno snodo di passioni contrastanti. E neanche dell'amore, di una qualche redenzione, solo la vendetta spiega tutto in un progressivo avvitarsi dei protagonisti e delle vittime in uno stato di abietto sconforto.
Pietà di Kim Ki-dukCon la consueta fotografia incantevole, con i colori saturi e ben contrastati, con le sue luci incantevoli e le sue ombre drammatiche, Kim Ki-duk ci conduce in questo abisso di menzogne, di dolore, di fatica esistenziale, dove la ricchezza e la povertà dialogano tra loro alle spalle dei viventi. Lo sfondo del paesaggio urbano, lurido e viscido, abitato da sanguinolente presenze animali, oppure lindo, perfetto, teatrale, è anche il regno dove tutto è possibile e il male ha più possibilità di strisciare e avventurarsi che non i doni invisibili di bene e di speranza. Il veleno entra nel protagonista proprio come un raggio di sole che voglia rischiararlo e riscattarlo: l'uomo si arrende alla possibilità di farcela, di uscire dal tunnel della sua feroce usura e diventa addirittura protettivo, scoprendo un nervo fatale.
Io non ho ben capito chi sia quel Dio di cui si parla nel film, cosa sia l'inferno nel quale tutti augurano che Gang-do bruci, ma deve trattarsi di una religione molto meno aperta e solare di quella che siamo disposti a considerare. Non c'è traccia di anima, rimane solo la consunzione eterna dell'uomo, è sulle viscere che il male agisce, anche quando la carne brucia, marcisce. Non c'è umanità e non c'è un domani per ognuno degli uomini, solo per i sopravvissuti. Alla fine di tutto c'è la fine di un mondo. Il resto continua come se nulla fosse, ma con gli equilibri che si ricompongono. Almeno per qualcuno.

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