Pietrangelo Buttafuoco, Il Feroce Saracino, Bompiani 2015

Creato il 21 aprile 2015 da Malvino
Nel mettermi dinanzi alla pagina bianca per scrivere dell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco (Il Feroce Saracino, Bompiani 2015), irresistibile è la tentazione di chiarire la mia posizione di lettore parafrasando quell’«io di mio» che apre il XV capitolo («Io di mio ho un nome saraceno»), e poi il XVII («Io di mio ho questa lunga storia d’amore con questo ritrovarmi saraceno»), attaccando con un’avvertenza che mi protegga da possibili fraintendimenti da parte chi si appresta a leggere questo tentativo di recensione (vedrete quanto impossibile): io di mio ho orrore perfino della trascendenza che ubriaca da millenni l’occidente, figurarsi se me ne bevo una d’importazione. Tentazione irresistibile, questa di chiarire che non la bevo, perché in questo libro, assai più che in quelli precedenti, dove pure l’Islam emanava tutto il suo impeto proselitario in puro incanto, don Pietro (ora Giafar al-Siqilli) usa quell’«io di mio» a offrirsi come una soluzione autobiografica che  ci dà per culminata nel sereno ritorno ad una casa che è di tutti, e a questo «io di mio» non si può negare quell’intrinseca forza di fascinazione che chi narra del suo viaggio riesce ad esercitare su chi ascolta, quando ci riesce, sicché Itaca può diventare facilmente patria anche di chi è nato a Oslo. Se ogni recensione è sempre, almeno per metà, un parlare di se stessi – seccatura che solo il recensore professionale può evitare a se stesso e ai suoi lettori – qui mi preme sbrigare la faccenda il più velocemente possibile: l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco sembra avere una sola ma vitale urgenza esistenziale, quella di chiarirci che l’jihad è sforzo tutto interno, e che la vittoria sul Nemico sta nel pieno abbandono di se stessi ad una Verità che nella rivelazione del Profeta trova solo la piena conclusione – ma lo si scusa volentieri non sia poco – di ciò che Dio ha rivelato ad Abramo, e poi a Mosè, e poi a Gesù. Non è così, ovviamente. Perché l’jihad è anche campagna di conquista, come è connaturato nel dna comune a tutti i monoteismi. Perché la Verità che si fa legge nel Corano non è meno diversa da quella che si fa legge nei Vangeli di quanto sia diversa da quella che si fa legge mosaica. Se un tratto comune le apparenta, procede per ebrei, cristiani e musulmani da quella pesca a strascico che da oriente a occidente raccoglie suggestioni ancestrali di ogni genere, dalle pendici del Tibet alla sorgente del Nilo. Per capire come possa riuscirci affascinante l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco, bisogna immaginarcelo come un cristiano che vada per le strade di Parigi a declamare il Discorso della Montagna mentre i cattolici sgozzano gli ugonotti. Uno lo ascolta e non può fare a meno di dire: caspiterina, che religione di pace! E senza ironia, perché Giafar al-Siqilli è sufi genuino, onesto e convincente (per dire, Franco Battiato ne sembra una caricatura che suona come un soldo di latta), e non vogliamo avere dubbi che la società organica della tradizione sciita sia di un corporativo così caritatevole da essere l’ombra pur fievole della legge del Misericordioso. E poi, via, non ci sono cristiani che si limitano a testimoniare Cristo come incontro, con la sola forza dell’esempio, trasfigurando il dogma in pura immagine del Sovrumano, la precettistica in diario intimo e la preghiera in canto? No, eh? E vabbè, fa niente, come non detto, tanto qui era discussione un musulmano. Uno solo, sia chiaro.

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